jueves, 28 de enero de 2010

Scrive Mario Lunetta in Poesia italiana oggi (Newton Compton 1981):

ecco gli "sfavillanti deliri lessical/sintattici/semantici di quell'inguaribile cultore dell'infra-metaetimologia che è Toti: la cui sfrenatezza ha sempre le briglie sul collo, ben tirate, e il collo sotto la testa. Che è poi il testo, con la sua lucida ragione motoria a pieno regime. Toti è maestro in una pratica della scrittura come contraddizione tutta giocata sulla rissa sulfurea dei significanti che partoriscono da sé, in una serie di giostre acri e gioiose, catene e catene di significati, praticamente al­l'infinito. La sua «padronanza assoluta» della retorica e delle lingue (morte e viventi) ne fanno un caso radicale di fortissimo poeta «inat­tuale» dotato di irriverente attualità."

Il tempo libero

L'ultima pagina (scritta nel 1974) de Il tempo libero (Editori Riuniti, 1961, sec. ed. aggiornata 1975)

"In conclusione, se «tutto lo sviluppo della ricchezza umana si basa sulla creazione di tempo disponibile», il tempo di liberazione sarà la base e la dimensione della nostra attuale e possibile ricchezza, e così lo chiameremo, lasciando il sintagma del «tempo libero» alle provvisorie comodità del discorso, alla sua funzione estraniata. E continueremo a liberare il tempo anche dalla sua falsa libertà, dalla sua falsata coscienza, nello stesso tempo dalla forma ideologica trapassando alla forma utopica della nostra sociale progettazione. Certo, nessuno di noi si occuperà di elaborare menù di tempo liberato per le cucine futur(poss)ibili. Già persino le timide e ironiche profezie di Marx sulla «società comunista in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsìasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore né critico» diventano facilmente oggi oggetto di affettuosa controironia come scelte tipiche di un gentiluomo inglese di quel tempo, un po' raggelate in una stampa colorata o datata, come quegli ideali da country gentle-man o da squirearchy neopositivista, con una perdita di quella drammaticità che oggi intride per noi ogni ucronica fantasmasìa. Sarà forse meglio concentrarsi sul tempo di liberazione che sul tempo (che sarà stato) liberato e, se mai, cercare il futuro nelle ufanìe dell'arte, e ritrovarlo nella commozione antifeticistica e defeticeizzante con cui partecipiamo alla mediazione creatrice dell'artifattura critica di una soggettività vergognosa del proprio silenzio (pre-artistico) percettivo. Ricordando magari con il poeta l'esortazione della statua apollinea al contemplatore: «Devi cambiare la tua vita». In fondo, è tutto qui. Solo che dobbiamo cambiarla da soli e insieme in quel tempo di liberazione che è anche liberazione del nostro attuale tempo (il)libero. Per ridirla con il Goethe di Epìrrema:

guardate sempre all'uno come al tutto;
niente sta dentro, niente sta fuori.
Perché ciò che sta dentro, sta fuori,
E così afferrate senza dilazioni
il mistero sacramente pubblico..."

L'essenza della tecnica non è tecnica - Gianni Toti

Stimolato al dibattito dall'articolo (volantino-proclama-documento politico) di Alberto Abbruzzese (« Non è più tempo di teorie ») pubblicato sul numero 39 di Rassegna Sindacale,del marzo 1981 interviene Gianni Toti. Un articolo che merita di essere riletto...

Che singolare teoria, questa secondo la quale «non è più tempo di teorie». Ma il filosofo con il vizio dell'effìmero» lo sostiene come se la teoria fosse... che cos'è la teoria? Ma non era forse il livello più alto della prassìa? E viceversa? Steorizziamo, dunque? Ohne theorie keìne revolution, si diceva poco fa, « or non è guari »... Eccomi dunque «stimolato al dibattito», come al solito e come si augura — sul n. 8 di Rassegna Sindacale — il commentatore del « volantino-proclama-documento politico » del « maestro del pensiero » di moda, altrimenti detto Architéoro, dalla Teoria-sacrificio offerta al Theos della Theorìa, ciò fu al Dio dello Sguardo... Se mai un tempo ci fu per « guardare » e « vedere » bene, è proprio questo, troppo nebbioso ideologicamente.

Ma è proprio adesso che si scatena l’antiteoria più teorizzata, l'antintellettualismo più intellettualistico, l'antipoetismo, Tantiartisticismo, ecc. « Dagli all'autore! » è il grido d'ordine che, per esempio, si sente risuonare più spesso, anche in aree sinistriere. E ci avrebbe dovuto pre-occupare, non post-occupare come fa qualche regista cinematografico in allarme tardivo perché « si prospetta con crescente chiarezza la tendenza progressiva alla svalutazione del peso e della figura stessa dell'autore, in un processo di vera e propria spersonalizzazione, quasi una perdita d'identità » (lettera di Damiano Damiani ai soci dell'Anac, l'Associazione nazionale degli autori cinematografici che non è mai riuscita finora a scegliere una posizione « qualitativa » unitaria nei confronti delle responsabilità culturali dei suoi aderenti). Siamo arrivati al «paradosso incredibile di una catena di montaggio che produce poesia» (su L'Unità, il critico comunista David Grieco, ma sic!, a proposito di De Niro e dei « tremendi ingranaggi industriali» che produrrebbero arte...).

E i filosofi abruzzesi celebrano i riti del giovedì Problemi dell'informazione l'esaltazione « serialistica » su Rinascita e altrovunque, evviveggiando al « telefilm-saga », (e al « metagenere », al « megatesto » ecc), e auspicando « l'allestimento di un dispositivo linguistico-narrativo-espressivo analogo » a quello di « Dallas », « prodotto in Italia ». « Lavorando e studiando seriamente »... sogna l’Albertone nazional nostro sociologo di massa, dimenticando di inserire una elle nel suo « seriamente ». Ahiluinoi! serialmente studiando e lavorando, è arrivato alla conclusione, davvero « peregrina », che « è necessario inventare dispositivi atti a compensare l'assenza» eventuale di « telefilm » italiani « e a fronteggiare così la forza della diffusione americana »... E' con queste sognerìe da periferia imperiale che rispondiamo « all'attacco frontale di un'informazione tecnologicamente evoluta »? E se « parliamo e scriviamo», questi nostri «parlare e scrivere » sono solo « forme di produzione in via di obsolescenza, oltre che direzioni politiche e culturali frantumate»?

L'abbagliamento dovuto al buio splendore delle networks o delle majors americane oppure HollyWoody Alien, è solo uno « sbagliore » socioillogico? O è dovuto a una miopia da obnubilamento supertecnotronico? La logìa della tecnica americana non è da demonizzare né da divinizzare: fra un mixer Vital a disposizione della Rai e un Grass Valley 300 ancora non arrivato da noi, la differenza è solo di quantità: ambedue le tecnotronìe sono sottoutilizzate e ridotte all'uso delle peculiarità informative, ovvero al disuso delle specifiche proprietà sinestesiche e tecnìtiche (varrebbero a dire, sì: artistiche). Ma di fronte all'adorazione subalterna dei « serials di strepitoso successo » a poco valgono i richiami alla presa di coscienza tecnica di questi « mezzi di massa », o di questa « massa di mezzi» che sono soltanto «mezzi », appunto, di un'epoca industriale in cui la pasta della màza (focaccia o pan d'orzo da impastare) sembra agglutinare, inghiomare classi, ceti, strati, pubblici, e i non dividui che dovremmo essere (non soltanto «non divisibili» ma neppure addizionagli; moltiplicabili sommai).

Il « protagonismo dal basso », il « policentrismo»: puri sogni sociologici se la riduzione politicistica all'appiattimento culturale prevalesse. Certo, bisogna reagire alla totalizzazione tendenziale della grande macchina telematica, e (qui Alberto ha ragione vendere, ma soltanto razioide, e nessuno la compra) il movimento sindacale non è riuscito, finora, neppure ad articolare una «politica del tempo (non) libero» da liberare davvero. Ma non si combatte la « grande subcultura industriale» con la «piccola subcultura industriata» che si vorrebbe « grande » come quella industriante e omogeneizzante, mentre sul piano tecnico dispone già di altrettali dispositivi meccanici: le manca solo quel «supplemento d'anima » che urge anche nella nostra Cacania...

Il nodo da recidere (o parvulo Alessandralo abruzzese!) non è quello dello «sviluppo elettronico» già arrivato o in arrivo anche da noi. Per essere «politicamente competitivi sul mercato dell'informazione» bisogna combattere « l'informazione del mercato » e la «competitivita» stessa, non considerare « informazione » solo quella «mercata», non teo-logizzare quel « mercato », non inginocchiarsi davanti a nessun « major », battersi per superare «la qualità senza uomo», «il mondo senza qualità»; e non venerare da pigmei ipotecnoidi quell’«aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento di impotenza » di cui i pensatori della crisi parlavano con ohiaroveggenza quando ammonivano (Nestroy-Wittgenstein per esempio) che « in genere, il progresso ha la proprietà di apparire maggiore di quello che è veramente ». Effettivamente, la «politicizzazione o la sindacalizzazione dello spirito » costituiscono una pericolosa confusione di ruoli (si pensi agli enti locali «produttori di cultura » in proprio o quasi). Meglio non cedere alle facili abbreviazioni.

Naturalmente, sarebbe più che augurabile un congruo investimento di energie e mezzi da parte dei «partiti e dei sindacali della sinistra » come auspica il mio buon nemicamico Alberto Abruzzese. Ma bisogna avere ben chiaro che neppure « un progotto di dimensione nazionale e di portata tecnologica adeguata», con «l'edificazione di luoghi di produzione e di consumo legati a risorse economiche politicamente mature » ecc. potrebbero bastare al contrasto del superpotere tecnotronico. Soprattutto se lo spirito della competitivita è quello dell'angelo con le ali tristi perché non sono state cosmotorizzate. La vera competizione è un'altra: non riguarda i mezzi ma i fini. La mass-mediaevalizzazione che ci minaccia anche in casa nostra nel «futuro immediato » si occulta nel linguaggio apparentemente spregiudicato di un « pragmatismo senza teoria » (è poi la teoria del pragmatismo puro e semplice) che non dovrebbe essere il nostro. Perché l'essenza della tecnica, caro Abruzzese e cari «rassegnatori sindacali», non è tecnica...


(Rassegna sindacale, n.39 marzo 1981)

Una lettera di Gianni Toti a Giorgio Di Costanzo

Data del timbro postale: 2 (?) maggio 1987

[...] Ri-vedere la letteratura nel suo working process o progress è necessario, e particolarmente nei periodi di così maledetta transizione verso un diverso "stato dell'arte". Proprio oggi che i modelli mentali di scienze e arti si confrontano (basti pensare ai sette video che io stesso sono stato incaricato di realizzare da parte degli scienziati triestini della Intercultural Society for Science and Art per la mostra "L'Imaginaire Scientifique" che si è tenuta nella primavera del 1986 alla Géode della Cité des Sciences, Tecniques et Industrie alla Villette di Parigi e, questa primavera, già come seconda edizione, nell'Area di Ricerca della Fiera di Milano). All'orizzonte si profila un modello unitario della creatività umana. I miei sette videopoemi scientifici o scientipoemi sono le prime prove della sinestetronica in fieri...

... Il continuo spostamento da un'area semantica all'altra è ormai la condizione creativa minima per poter continuare a "descrivere l'universo" e contemporaneamente a "continuarne la creazione", e la critica estrema del pensiero può essere perseguita proprio dai linguaggi artistici in lotta permanente contro se stessi e le proprie soglie critiche. Quindi Carte segrete da una parte, per la ricerca di questi buchi neri delle lingue e dei linguaggi e per la sperimentazione delle fughe dagli orizzonti collassanti degli eventi; e, dall'altra, la poesia degli Strani attrattori come si intitola il mio ultimo libro di poesia, (edizioni Empiria, finalista al premio Camaiore '87 insieme a Giudici, Roversi, Cacciatore, Faggi) che assorbe anche la proliferazione neologistico-scientifica, i nuovi "campi" lessicali per dire l'indicibile del "postmodernariato", l'oltrelinguaggio epocale che sembra sfuggirci, nella mass-media-evalizzazione globale. Per questo la "poetronica" ovvero la "poesia elettronica", o la "poematica" o "poesia trans-informazione-automatica" (del "villaggio planetario elettrico") pone il tema della fusione dei linguaggi e della creazione di nuove arti, non sostitutive delle vecchie arti compiute ma aggiuntive e anche re-inglobanti: ...pour donner un sens pur / au mots de la tribù...

... Da qualche anno sto scrivendo "irracconti " o "inenarrazioni", "in raccontumacia", pubblicandoli in mannelli diversi sulle riviste di frontiera che me li chiedono (e a volte travestendoli anche, nascondendoli sotto altri nomi d'autore). Ne ha pubblicato un'ultima scelta la rivista-collana dei "Magazzini Generali di Poesia", dopo "Anterem", "Marka", "Lunario nuovo", "La Battana", etc. e sta per pubblicarne un'altra sezione la nuova rivista "Taverna di Auerbach". Intanto mi preparo a girare l'ultima "videopera" per la tricoproduzione della Ricerca e Sperimentazione Programmi Rai, la Terze Rete e l'Istituto Luce, a partire dal personaggio Velemir Chlebnikov, di cui è appena ricorso il centenario della nascita, videopera dal titolo "Squeezangezaùm" (combinazione tra il "generatore di effetti speciali "squeezoom", il titolo del poema chlebnikoviano "Zangezi" e la lingua transmentale dei futuriani di settanta anni fa, la "zaùm". Scrivo anche, soprattutto, poemetti scientipoematici e preparo da molto tempo un "inerromanzo in versi" di cui non dirò altro finchè non l'avrò compiuto... Inoltre, elaboro continuamente il "totiano", o "poetotiano", la lingua in cui scrivo le mie "utotìe"...

...ecco qua, carissimo Giorgio

... e promessa di farti mandare il 51, 52, 53 di "Carte segrete", nella speranza poi un giorno di venirti a ritrovare nell'isola, e passare una sognata, da troppo tempo, vacanza con il mio vecchio giovane amico... Ma tu fammi avere "Litera-tour" (simpatoticissimo titolo) e il ... di Ischia: me lo avevi promesso... E dammi tue notizie un po' più fitte: mi verrebbe voglia di ripeterti le domande che mi fai tu!
Insomma, a presto, qua o là. Con un forte affettuosissimo abbraccio da me e da Marinka...

tuo Gianni Toti





















Work in regress
(da Viaggio al termine della parola)


col cerebronico e gli interminali
già i futuri commemorizziamo
pessime ottimalizzazioni ottime
pessimazioni poetelematiche
cosmatiche cosmetiche...


dati i dati date le date
alle banche date dei “data”
videostampàtevi in ufanìa:
qui i finzionari che fanno
pensare le macchine che fanno
ciò che spensano e sfanno
quando esonerano il cerebello

qui work in regress. -


Cloniche di ucronie

qualche qualcosa talche talcosa
con un pr(o)emio di talità
un talitario un qualcosario

ci ci-clonano sapete
a-b-cicloni ci fanno
- uclonìa ! uclonìa !

anaclonistiche chi
mere parvenze
pauro paulo pauco paupero

purvulo alessandrulo


Ignotizie

ineffabili le ineffìbule
fibulistiche fabule di ablate
clito non più ridenti
ninfe e glandi labiule
con spine d'acacia ritorte

rivulvoluzione ? trenta
milioni di bucche cucite
già rivulvoluzionate


Brevidia (prime vociferazioni per un Contraddizionario)

ricomincerò dalla tua faccia senza faccia tutta dita

perché se dico ti prendo la mano ti tocco
con queste parole che bucano l'aria

se ti prendo la mano se ti dico ti prendo
la mano ti tocco anche con le parole
con cui ti prendo intanto la mano

se sul silenzuolo ci prendiamo tutto
che altro tocchiamo intangibili intatti
là dove si tocca ciò che non si tocca
con la mano e con la parola?

se noi ci scateniamo allo smontaggio del tatto
con silenzi incrociati a verbi scritti
e nomi d'azione e piccole verghe accentuate
che cosa rimonteremo se non quelle catenule
di polpastrelli tenui muscolature lisce?


contrattacizione

alacriloquente il tuo è un tristilòquio
irsuta lallazione nel poetorio
senza giardino e senza purgazione

meglio tacere paraulando

L'inutilità del poeta di Giorgio Di Costanzo

Colloquio con Gianni Toti


[...]Venerdì 24 aprile, nei locali del Centro culturale del Torrione di Forio... gli ospiti erano Marinka Dallos, Gianni Toti e il prof Peter Sarkozy, docente di letteratura ungherese all'Università di Roma, che ha introdotto la serata con una relazione storico-critica sulla poesia ungherese dalle origini a oggi.
Marinka Dallos e Gianni Toti hanno letto, tra l'altro, testi di Deszo Kosztolany, Attila Joszef, Endre Ady e Miklos Radnoti.
In occasione di questo ennesimo incontro di poesia ho rivolto alcune domande all'amico Gianni Toti.


- Inizio rifacendomi a quanto scrive Stefano Lanuzza in un saggio recente sulla tua poesia: “Gianni Toti, sorta di Jarry italiano che interpreta occasioni esistenziali e storiche, ecologo dell'ideologia avversa all'inquinamento di notizie e ai pestiferi epigoni che tanto ancora adugiano la nostra repubblica letteraria”. Molto brutalmente, ti chiedo: qual'è la funzione del poeta?

Questo tipo di domanda è simile alle domande con cui si organizzano convegni e congressi: qual'è la funzione o il modo dell'intellettuale, del musicista, del filosofo... Questa è una domanda da non porsi o magari essere formulata in modo diverso: non esiste una funzione del poeta. Perché il poeta non è un funzionario, non funge, non adempie, anzi È INUTILE. A questo punto può sembrarti provocatorio, ma se ti dico che il poeta non deve essere utile a nessuno, tutto diventa più chiaro. Non essere utile significa non essere usabile, significa non servire. Se dico che la poesia non serve può sembrare provocatorio, ma se ti dico che la poesia non deve servire a nessuno la cosa è diversa. Se non serve a nessuno allora serve, ma a se stessa. Per questo, dico sempre che la poesia non deve servire neppure la rivoluzione o qualsiasi altra nobile causa. Semmai penso che bisogna fare la rivoluzione perché la rivoluzione serve alla poesia.

Per chiarire meglio questa idea vorrei ricordarti il titolo del mio ultimo libro di poesia, Compoe[to]tibilmente infungibile, che riassume l'idea che la poesia è infungibile, cioé non ha funzioni, che non è compa[to]tibile con se stessa, da cui il neologismo introvabile: incompa[to]bile.


- Una domanda che pongo da anni ai miei amici poeti. Che senso (e utilità) hanno le letture di poesia in pubblico, i festival, dibattiti, tavole rotonde, inchieste, etc?

La risposta a questa seconda domanda è strettamente connessa alla prima. Anche il lettore deve essere infungibile. Il lettore è il poeta di secondo grado e forse dovrebbe essere considerato il poeta di primo grado, essendo il destinatario della poesia, lo scopo della poesia, e quindi ogni operazione culturale dovrebbe essere orientata al massimo rispetto del destinatario. Allo stesso modo in cui il destinatario non deve lasciarsi manipolare dalle strumentalizzazioni delle iniziative.

Ogni lettura, ogni convegno, ogni festival, etc, deve essere diverso da quelli che si tengono oggi. Frettolosi, superficiali, brevi, convulsi. Queste letture sono solo citazioni, riassunti, abbreviazioni e un lavoro ri-creativo di poesia che non dovrebbe essere meno intenso e complesso dello stesso lavoro creativo dell'autore. Le letture che si fanno oggi sono spesso un male minore, servono ad alcuni interessi e fra questi possono essere quelli del singolo poeta per farsi conoscere, ma non servono mai alla poesia. Anzi, nella maggioranza dei casi, servono a dare un'immagine sbagliata alla poesia.

Chi partecipa a queste letture ritiene di essersi avvicinato alla poesia, quando ha ascoltato pochissimi versi o composizioni di qualche autore per cinque minuti (Castelporziano, Piazza di Siena) o un quarto d'ora/mezz'ora nei casi migliori, quando invece è venuto a conoscere soltanto qualche citazione di poesie lette, in genere male, sia dall'autore non abituato alle letture, sia dall'autore col birignao, senza poter distinguere e ricomporre le due facce del segno: il significante ed il significato, cioé l'aspetto sonoro e il referente reale e neppure per poter comprendere il seno della composizione ecc. ecc. e dovremmo forse continuare a lungo...


- Quali sono secondo te le linee di ricerca e sperimentazione poetica più vivaci ed interessanti di quest'ultimo periodo?

La critica più impegnata e responsabile sta cercando di individuare le spinte e i movimenti che si proiettano nel futuro della poesia. In questo senso l'ultimo tentativo compiuto, al di là delle antologie, più o meno settorie, è quello di Renato Barilli: Viaggio al termine della parola*, pubblicato da Feltrinelli. Questo critico individua nel lavoro di alcuni poeti italiani, e tra questi poeti il mio personale lavoro, alcuni elementi che sono stati chiamati anche postmodernisti, che mi sembrano capaci di superare la crisi estrema del senso e del linguaggio della nostra epoca. Tutto è stato già detto e scritto.

Tutte le forme del discorso, tutte le metafore, gli stili sono arrivati alla compiutezza storica e la parola è arrivata al suo estremo limite, il silenzio. Come alternativa abbiamo soltanto l'uso consapevole del già detto e scritto o l'innovazione intraverbale, fondata cioé sull'attacco al sacro nucleo della parola. Questa direzione di lavoro è soltanto una delle possibili vie del futuro della poesia. Personalmente io ritengo che nel passaggio dalla galassia di Gutemberg a quella elettronica si spalanchino per la poesia le strade della tecnologia più avanzata e delle combinazioni artistiche, delle più diverse sensibilità mediante l'uso multiplo delle protesi sensoriali. In altre parole, credo nelle possibilità di realizzare, come io stesso ho già fatto in alcune sperimentazioni elettroniche per la Rai, quella che chiamano la poetronica, ovvero la poesia elettronica.

El Efecto Toti

En 1995 Gianni Toti presentó en Lima sus principales trabajos de videocreación. Antes de 1995 el videoarte tenía aún escasa visibilidad en el panorama local principalmente por la carencia de una "comunidad" que pudiera hacer más valedera la actividad artística en este nuevo medio.

Existían otras razones vinculadas a la falta de conocimiento local en relación al videoarte y por ello el poco interés de los museos y espacios culturales en el Perú por incorporar el vídeo de la misma forma en que ya lo hacían otros países de América Latina. Toti logró mostrar una porción de este panorama internacional. Sin embargo, el trabajo de Toti se caracterizaba por ser absolutamente crítico y complejo. Por eso, podríamos decir que la presentación de Toti en Lima no sólo fue una acción emblemática, sino radical para el panorama local. El siguiente paso se dio gracias al vínculo que Toti generó entre ATA 3 y organizaciones internacionales, principalmente el CICV (Centro Internacional de Creación de Video, Montbelliard-Belfort). Estos vínculos permitieron llevar a cabo, en 1998 la primera edición del Festival Internacional de Vídeo/Arte/Electrónica (que como gesto curioso se nombró segundo festival, apelando a uno realizado en 1977 por Alfonso Castrillón en la Galería del Banco Continental en Lima). El Festival generó una escena local y al mismo tiempo un activo intercambio con artistas y curadores internacionales.

Es innegable el apoyo de Gianni Toti en esta primera etapa y su contribución como mediador del vínculo entre el Perú y América Latina (o como él solía llamar, LatinAmerIndia) y con países Europeos donde este campo era apoyado por instituciones orientadas específicamente a la producción en nuevos medios que tuvieron un auge importante en la década del noventa.
Julio Cortazar:

Escribo desde los quince años, pero sólo a los treinta me animé a publicar un libro de poemas, firmado con seudónimo. He escrito siempre poemas. Adolescente, creí, como tantos, que mi sensación de extrañamiento anunciaba al poeta, y escribí, los poemas que se escribían entonces y que siempre son más fáciles de escribir que la prosa, a esa altura de la vida. Pero no había para más. Me sorprendí por eso cuando, un día en La Habana, Gianni Toti me dijo que de todo lo que había escrito lo que más le gustaba eran mis poemas. Cuando escribí Los reyes ya era dueño de una técnica, que era hija del rigor. Siguieron los cuentos de Betiario, sobre los que ya no tuve ninguna duda. Pero el noviciado había sido largo y duro. Había que tenerse mucha fe, y a la vez había que apoyarse en una permanente desconfianza en sí mismo. En el terreno práctico, esto debía traducirse en no publicar prematuramente, pecado cotidiano en nuestros países.

Joaquín Jordà. La mirada lliure (Laia Manresa)

Lenin Vivo (1970) es un documental elaborado
con todos los documentos sonoros y visuales exis-
tentes que registraban la figura de Vladimir Lenin.
El mediometraje, de treinta y un minutos, fue un
encargo del Partito Comunista Italiano con oca-
sión del centenario del nacimiento del líder políti-
co, y la producción estuvo a cargo de Unitele film,
la productora del partido. Jordà codirigió la pelí-
cula con Gianni Toti, un poeta y crítico de cine
amigo suyo.

El documental, cuya versión original es italiana,
comienza con un discurso político de Lenin con la
pantalla en negro. Acto seguido, la voz en off que
nos guiará a lo largo de todo el metraje nos indica
que se trata de un discurso de Lenin en la plaza
Roja de Moscú, el primero de los tres documentos
fonográficos que se conservan de su voz. A conti-
nuación, comienza un breve repaso biográfico del
político, primero con fotos comentadas por la voz
en off, después, con un montaje de material de
archivo sin sonido para ilustrar la época en que vi-
vió, la Rusia de 1870.

Terminada la introducción, en el minuto cuatro
aproximadamente, la pantalla se vuelve a quedar en
negro y la voz en off presenta lo que constituirá el
cuerpo principal de la película con estas palabras:
''Lenin detestaba el culto como jefe revolucionario.
Ofrecemos a su modestia el testimonio visual de
su vida, y por eso, en el centenario de su nacimien-
to, presentamos sin ningún tipo de manipulación
veintidós fragmentos cinematográficos de Lenin
Wvo.'' Los fragmentos prometidos se ofrecen orde-
nados cronológicamente. Cada uno de ellos está
precedido por un cartel que Índica su fecha. Sobre
este cartel, la voz en off aporta un breve resumen de
las imágenes que se presentan a continuación tal
como fueron filmadas, sin ningún trucaje.

Para hacer el documental, los realizadores pidie-
ron a Moscú todo el material que tuviesen sobre
Lenin. Después de recibirlo y visionario detenida-
mente, se percataron de que el material había sido
manipulado. Si tenían un plano de Lenin movien-
do el brazo mientras hablaba desde una tribuna,
montaban este gesto una vez y otra vez. Utilizaban
un encuadre más corto del mismo plano o hacían
desaparecer la imagen de Trotsky que salía en el
plano general cuando éste pasaba a uno más corto.
Jordà y Toti se propusieron restaurar el material y
dejarlo tal como ellos pensaban que originalmente
fue rodado: ''Mi tarea consistió en la restauración
de la realidad filmada, en la devolución del encua-
dre que suponía original, en la restitución de la
verdad fílmica e histórica'' (Jordà, 1992: 59).
El primer fragmento visual consiste en el primer
Primero de Mayo de la Revolución Soviética (i de
mayo de 1918) y el último data del 30 de octubre
de 1922. El conjunto de todos los documentos
abarca un período de cuatro años y cinco meses de
la vida de Lenin. De los veintidós documentos,
veinte son visuales, uno es sonoro y otro es visual y
sonoro a la vez.

Aparte de algunos Primeros de Mayo y aniver-
sarios de la Revolución, la película ofrece imágenes
de Lenin en los jardines del Kremlin, en varias
inauguraciones de monumentos, funerales de com-
pañeros políticos, discursos y congresos de la Inter-
nacional Comunista.

Aproximadamente en el minuto veinte de la pe-
lícula y con fecha de 1920, el documental incluye
la única secuencia rodada en el ámbito familiar de
Lenin. Las primeras imágenes corresponden al co-
medor y a su habitación, compuesta por una cama
individual, una mesilla de noche y un escritorio. A
continuación, vemos a Lenin sentado al lado de su
mujer. Mientras habla, acaricia con afecto a un
gato que reposa en su falda.

El año 1922 está ilustrado con tres fragmentos.
El primero corresponde al día 20 de mayo. La voz
nos explica que Lenin está enfermo, y las imágenes
nos muestran un balneario donde el líder se ha
retirado para recuperarse. El 2 de octubre regresa a
Moscú. El médico reduce el horario de trabajo del
político de 11 de la mañana a 2 del mediodía y de
6 a 8 de la tarde, un horario que Lenin encuentra
difícil de respetar. Las últimas imágenes de Lenin
vivo, en el minuto veintisiete del mediometraje,
corresponden a Lenin en su estudio el día 30 de
octubre. La voz en off nos explica que el médico le
ha prohibido trabajar.

Aproximadamente en el minuto veintiocho, se
tiñe de negro la pantalla sobre la última imagen
de Lenin y en envolvemos a oír, como al inicio del
filme, la voz del político pronunciando un discur-
so. Se trata del tercer fragmento fonográfico que
incorpora la película. Todavía con la pantalla en
negro, la misma voz en off que nos ha acompañado
hasta ahora nos presenta lo que constituirá la ter-
cera y liltima parte del documental: ''Ùnico frag-
mento poético di Lenin vivo ('El único fragmento
poético de Lenin vivo)'' Se trata de un poema es-
crito por Lenin en el año 1907 que, en la película,
se lee en su traducción italiana: ''Gli anni degli
uragani'' ('Los años de la tempestad'). Con la lec-
tura del poema de fondo, se proyecta un montaje
de imágenes sobre la revolución de los años sesen-
ta. Esta última parte del documental supuso para
Jordà la rotura definitiva de relaciones con el Parti-
to Comunista:

''Allí tuve un serio encontronazo con la censura
del PCI. A la frase 'De Oriente surgirán soles', le
acompañaba una panorámica vertical de abajo
arriba, sobre Mao-Tse-Tung. El responsable ideo-
lógico de turno, una elevadísima jerarquía del Par-
tido, se empeñó en convencerme de que la quitara,
porque dicho desplazamiento hacia arriba per-
judicaba la política internacional del pci. Yo me
empeñaba en mantenerla, o en que la quitaran ellos,
que para eso eran los productores. La solución pac-
tada fue convertir en plano fijo la panorámica.
Godard llevaba razón'' (Jordà, 1992: 59).

Finalmente, la copia actual no incluye la imagen
de Mao, ni con panorámica ni sin ella.
“Un maestro di vita, ma soprattutto un maestro di pensiero, un maestro di dubbio, una persona maieutica…”

“L’unico a fare, intorno alla tecnologia, all’arte elettronica, un discorso umanistico…”

Gramsciategui, ou les poesimistes


"GRAMSCiátegui! Y EL HOMBRE HACE MUNDOS…"

¿Es un verso? ¿Una poesía? ¿Un grito? Gramscientífico suena, el nombre compuesto de Antonio y de José. Gramsci y Mariátegui, una sola palabra. Como si fuese Garibaldategui o Bolivariátegui, une los símbolos del pueblo de Gramsciátegui: la síntesis lingüística, la contracción verbal, la asociación de los lenguajes. ¿Cómo se habla el coraje? ¿Cómo le habla el miedo? Recitándolo, explicaba Wittgenstein…No con modismos sino con gestos, la teatralidad del pensamiento que se re-evoluciona a cada neurona, cada sinápsis.

Así la VideoPoemOpera de Juan Totito, de Gianni Toti, plasma la palabra en movimiento: la imágenes cinematográficas, las imágenes poetrónicas, las imágenes esculptrónicas, las imágenes danzatrónicas, las imágenes verbotrónicas, las imágenes arquitectrónicas, las imágenes cromatrónicas, todas en movimiento finalmente. No como cuando existían solamente las imágenes photográficas, o las cinematográficas en movimientos casi estáticos…Gianni Toti nos ofrece con "Gramsciátegui" las Sonatas en Rojo Mayor (empieza en el movimiento futuráneo).

Junto con las imágenes del Monumento a la Tercera Internacional de Tatlin y de Chlebnikov, semejantes a las imágenes del DNA.(¿vista bien la analogía poética y ri-cerebro-lucionarias?)

En la misma fantasmagoria de la Serpiente Emplumada, de Quetzalcoatl, del Sexto Sol, y del próximo Pachacuti, la "postfecia" de la contra-conquista, la refuturación de los pueblos y la vengaza histórica de los holocaustos.

A nuestras palabras, pocas, pausadas, gritadas (El GRITO de Gramscaitegui, El Grito, no el canto. No cantaremos más, gritaremos. Desde el Castillo de Montbelliard a los Castillitos de LAtinAmerIndia. Y los otros castillos de nuestra poesía.
Gramsci ha muerto. Mariátegui ha muerto. Tupac Amaru ha muerto. Nosotros gritamos. El desespero es fuerte. ¡Los libertadores que se caigan en la leche!

Gianni “Túpac” Toti A tribute to Gianni Toti - José-Carlos Mariátegui

















Considered the ‘father’ of video poetry, Gianni Toti is one of the most interesting and experimental video artists of today’s international scene. It’s difficult to consider Toti a media artist: His experience as a poet, filmmaker, theater writer, journalist, among many other intellectual and artistic participations, took him beyond the aesthetics of the image. He questions and criticizes the image as a mere tool to represent the world and instead he argues that an image is something that is created by the confrontation of man and society.

Toti began to work with video since the early 80’s, defining himself as a ‘poetronic’, a creator that challenges theoretical thinking and cultural action in his insatiable search for new languages in the artistic and scientific creation, bringing to an extreme the visual and electronic poetry, considered by Toti as the sum of all arts in his infatigable search for a total art. His interests in science made him use the most advanced technologies to prepare, in 1986, a series of video poems for L'Imaginaire Scientifique of the Cité des Sciences et de l'Industrie of Paris. In “Orden, Chaos y Phaos”, for example, he uses sophisticated fractal geometry programs to represent a diverse and open interpretation of the theory of chaos, that goes beyond the scientific discovery, where color forms and electronic compositions metamorphose themselves in a complex and systemic set.

Toti doesn’t analyze the world; he tries to change it through our mind, understanding that knowledge cannot be obtained only by traditional ways (what we call ‘western culture’), but also through the reinvention of history, legends, oral traditions, rhythmic forms and popular culture, trying to create a ‘new alphabet’ of the visual. This is why it’s not by coincidence that Toti’s latest works had been related to Latin America, interpreting it as a land of hope for humanity, of new history in their past, in search for their future through traditions, misunderstood by many as ‘old’ or ‘primitive’ traditions, when they are really a mixture of old and new media art, a fusion of cultures and languages.

Historically, media art cannot be only represented from the early avant-garde onwards; we need to consider that media art was present since ancient times. From Shamanistic rituals, that could not even be compared to today’s virtual reality immersions, to musical and artistic developments. We are still analyzing media art as if it is a new way of creation simply because it tends to use electronic technology and digital computers. But I would like to emphasize with Toti that an assortment of “new media ecologies” can be found already in the Pre-Columbian art and techniques. For example, the quipu is a network-technology [1].

Five hundred years ago, western explorers returned from ‘remote areas’ reporting that they had discovered ‘primitive tribes’ with ‘primitive technologies’ and ‘primitive languages’. All those stories proved to be scientifically false, since many of those languages are more complex grammatically than English or even Chinese (languages associated in that time to human civilization). [2]

The language is one of the primary subjects in Toti’s work. Composed of a rich mixture of idiomatic expressions, mostly in French and Italian, but with a deep influence from all the languages of the world, his works require no translation. We can understand it as a new language, a ‘totian’ language, a magic prose, a poematic construction of words that interfere among them to create new ones. In this sense we hear phrases in Quechua, Mic-Mac or Aymara (languages spoken by the ancient Pre-Columbian cultures) that reminds us to the ‘experience of the other’. With language we can invent, every sentence is a new invention, produced by combining familiar elements; the perfection of human inventiveness is linked to the perfection of human language. In his videos Toti is trying to say us that language should be renewed, not technology.

We must think of the linguistic words and the problems of communication. Power is based in thought, not in language, and then we have to define techné, not technology. We cannot speak more on the science of though if we think it’s based on technology, we must first speak of the language of techné.

Deconstructing the music into parts and mixing new and old compositions, as in the case of the languages, have also been present in the work of Gianni Toti: compositions are created with many traditional rhythms and voices. The black screen is also an emblematic symbol at the beginning of his works: the voice of Toti in black reminds us to a dream in which we hear but cannot see, the voice guides us to a new metaphoric space. The voice of Toti is the musical overture to the synthesis of images coming afterwards.

For me, thinking of Gianni Toti is also thinking on my own experience on electronic arts during the last seven years. I found electronic art as a way of creation thanks to Toti, I found Toti thanks to Jose Carlos Mariátegui, my grandfather and one of the greatest Latin-American Marxist thinkers.

Gianni Toti was not only a pioneer in the use of visual language with his video poetries; he was also the first to write about Mariátegui in Italy. In April of 1963, he wrote an article titled “Mariátegui, il Gramsci Americano”, in “La Situazione” journal of poetry and culture directed by Alcide Paolini [3]. Although a long time passed through, more than 30 years since this first article, this was the beginning of a gramsciateguian metaphor, that concretizes with “Tupac Amauta” project [4], as a living essay on LatinAmerIndia’s reality, as Toti calls it; but also planetopolitane, since its the necessary continuation of Planetopolis [5], the poetic essay on the negative utopia of the planetary uninterrupted city. Gianni Toti’s interests are related to the lessons of history: revolutions, scientific discoveries, technological inventions, but specially the revolutionary thoughts when they exceed the facts, “enseignent” anything and deliver signs. Art gives Toti a way of applying the philosophical and scientific thought with an amplitude of dimensions to create, finding new mental models for a new way of anti-describing and re-evolutioning the world.

I first met Gianni Toti in La Habana, Cuba in 1994 during a conference organized by Casa de las Américas in the Centenary of Mariátegui. In that moment I was more related to the technical and scientific research in new media technologies from a humanistic perspective, but I didn’t know how to apply them to real life. Toti spoke to me about electronic art, about how there was a new perspective, a real salvation for humanity in the electronic languages, using the synthetic image as a metaphor of what could be done. The merge between art and science has made possible the application of these new conceptual proposals to space, a virtual space that is shown in Toti’s videos, and reproduced in our minds.

A year after, in 1995, we began the formal activities of ATA with an anthology of Toti’s works. This is also an historic event for the Peruvian electronic art movement, since this was the first of a number of actions that took place in Perú, that expanded to an International Video Art Festival, organized annually in Lima since 1998; the growth in number of Peruvian productions of electronic art from virtually zero to more than 80 works today; a National Price on Video and Electronic Arts, among other initiatives. Every action or questioning that take place in ATA are inspired by Toti: to think on the technique, the art and science as a way of producing works that questions and interprets our time and challenge us in the necessity of the creation of a new human personality…?

During the same time we first met, we began to work together on the development of the VideoPoemOpera “Tupac Amauta”, an original verbal association among the name of Túpac Amaru (the last Inca to struggle for Peruvian independence from the Spanish conquerors) and the quechuan eponymous of José Carlos Mariátegui (‘Amauta’ means ‘master’ in quechua language). Túpac Amauta has a deep pregnancy of meaning, since carries for the first time the figure of the ‘Amauta’ to the allegoric and metaphorical dominance of the electronic language, according to Toti’s words: "an extraordinary linguistic event, since the energy of the mariateguian thought will move from the semantic area of literature and film, to the fusion of all arts with the perspective of total work of syntheatronic art") [6]. The Project Túpac Amauta is composed of three parts, the first two already have been developed: "Tupac Amauta Premier Chant"(1997) and "Gramsciategui ou les poesimistes" (1999). The electronic creation process is being done at the CICV Pierre Schaeffer in Montbéliard Belfort, France.

Toti doesn’t analyze the world; he tries to change it through our mind. As he said once: “How can we speak about Courage? How can we speak about frightening? Not with modisms, but with gestures, with actions, the thought that re-evolves in every neuron, in every single synapses. From the Song to the Cry. We will not sing more, we will cry, from the Castle at Montbéliard to the castles of LatinAmerIndia”. [7]

Some people think that because of the immense possibilities of the electronic image, Toti’s work are just a pile of electronic effects and ready made plug-ins used to an extended degree. This is not true in the case of Toti’s creations; he is interested in revolutionary ways of thinking along with scientific revolutions, ways of seeing the world from the humanistic perspective of a real discovery.

As Toti points out: “In many cases this is a fact that reduces the work to the condition of special effects, or a modern version of an old art. This practice done with no taste shows the traditional aesthetic education rose around the surface of socio-psychological conditionaments. It answers an acceptance of a social mandate entrusted to the artist by the politic-industrial powers. A disfiguration of the pure desire which the more measurement to create a project against the destiny, the institution of predetermined forms of life to carry constant anticipation project of freedom, a non-alienated reconfiguration, a critical thought “. [8]

New media technologies don’t standardize and make much easier to perform the practice of making media from already existing objects. It is not as simply as a cut and paste, the real question is whether the author finds that it is all said using just this kind of metaphor.

In Toti’s works the creative process goes beyond the new technologies. Although for some other artists it could be just a “cut and paste” metaphor, for other more critical ones it is a “cut, paste and trash”, in the sense that they have more possibilities and had became more intrigued in getting what they really want, maning that you can have even hundreds of hours of 'created material' to make a 5 minute work. This is a way synthesis, meaning the artists should be able to really create something new, or just a never-ending work in progress.

The Tupac Amauta project is a work in progress, not a final work; it's a metaphor towards a new way of looking at things, a new way of interpreting that goes beyond technological images. The new digital culture needs to shift from the paradigm of the beautiful image but also of the technological image.

After we see Toti’s works, we are not the same, we feel different, and we think different, as Rose of Luxembourg said: “To think is to think diverse”. This is the diversity of languages that had been the fundamental weapons for Toti’s struggle and fight to change the world. All languages form the diversity and by simple iteration, like in fractal geometry, create complexity, which is what we find in his synthetic and moving images.

Is this diversity that make us define Toti as a man of the world, not as an Italian, not as Greek, not as a French, not as a neo-European, not as Peruvian, not as Latin American. Gianni Toti is simply terrestrial.

Notes:

[1]he quipu was an Incan accounting apparatus consisting of a long rope from which hung secondary cords and various tertiary cords attached to the secondary ones. Knots were made in the cords to represent units, tens, and hundreds.

[2]Diamond, Jared. “The evolution of Human Inventiveness”, in Murphy, Michael P. and O’Neill, Luke A.J. (editors) “What is life? : the next fifty years: speculations on the future of biology”, Cambridge University Press, Cambridge, 1995, pp. 41 - 55.

[3]Toti, Gianni. “Mariátegui, il Gramsci Americano”, La Situazione (rivista bimestrale di poesia e cultura, directed by Alcide Paolini), no. 25 – 26, Italy, April 1963, pp. 46 – 49.

[4]Tupac Amauta VideoPoemOpera. By Gianni Toti, with the co-creation of José-Carlos Mariategui III, Elisa Zurlo, Patrick Zanoli, Gilles Markesi, Sandra Lischi, José Javier Castro. Musique Pré-Colombienne: Les Chimuchines (Claudio Mercado, José Perez Arcem, Guillermo Aste Von Bennewitz, Víctor Rondon, Norman Vilches). Production: Yasmina Demoly (CICV), France, 1997. (Duration: 53'18")

[5]For more information on Planetopolis, see:

Heck, Georges. “Gianni Toti/autour de PLANETOPOLIS”, Realisation: CICV Pierre Schaeffer Montbéliard Belfort, France, December 1996.

Lischi, Sandra. “PlaneToti notes” (Notes pour un voyage dans la "planète Toti", l'univers "poétronique" de l'artiste Gianni Toti: ses idées, ses rêves, Planetopolis, sa planète-maison, ses livres, le monde...), en coproduction avec CICV Pierre Schaeffer Montbéliard Belfort, Italy/France, 1997. (Duration: 30'40")

[6]Handwritten document/manifest by Gianni Toti during the development of Tupac Amauta Project in Lima, Perú (circa 1995).

[7]Handwritten manifest by Gianni Toti for the presentation in Latin America of “Gramsciategui ou les poesimistes” (2000).

[8]Mercier, Marc. Chimaera monographie “Gianni Toti”, Edition du Centre International de Création Vidéo Montbéliard Belfort, France, 1992, pp. 36.

Gramsci cammina ancora? - Sandra Lischi

Scoperta delle Americhe? Quale scoperta? Conquista, semmai, cinica e sanguinosa, di territori pacificamente abitati. A scoprire i conquistatori, semmai, furono gli indigeni di quei territori, quelli che (come indica l’etimologia della parola) erano “nati lì”, i legittimi proprietari. E scoprirono questi vascelli e i loro bianchi navigatori con stupore e meraviglia, contentezza e curiosità, abbigliandosi al meglio per riceverli, allestendo festini e cerimonie. Ben presto sterminati: anche subito, anche lì sulle loro variopinte e ventose e festanti barchette. Per non parlare del dopo. E per non parlare dell’oggi. Ma perché non parlarne, invece?

Tutto questo lo sappiamo? Certo. Ce lo hanno raccontato genitori democratici o insegnanti di buona volontà, e anche qualche film, ormai. Ma cosa cambia, se gli olocausti continuano in tutto il mondo, cinici e sanguinosi? Cosa cambia, se con disinvoltura riusciamo a pronunciare l’impronunciabile espressione guerra umanitaria? Cosa cambia, se poi noi colonizzatori ci lasciamo colonizzare tutti, quanto e più di prima, dai colonizzatori di allora, che ci abbagliano con le loro perline colorate e i loro specchietti (uno fra tutti quello della fine delle ideologie, la più forte e illusoria delle ideologie del nostro tempo?).

Da molti anni Gianni Toti esplora, poeticamente e filosoficamente, il nostro tempo. Forse unico, fra gli autori video internazionali, a creare un discorso sul mondo fatto di immagini potentemente articolate, fino ai limiti estremi delle possibilità dei linguaggi elettronici (e, quindi, fino ai limiti estremi del noto, del già pensato, dell’ovvio, inteso sia come luogo comune dominante che come luogo comune confortevolmente - confortevilmente, direbbe Toti!- alternativo). Non documentari, quindi; non opere classicamente narrative; non saggi sociologici, didascalici, dimostrativi. Ma pensieri formati da e per immagini e suoni, costruzioni da guardare - capire - rielaborare (lavorare) per leggere in modo diverso, necessariamente diverso, il mondo.

Nei VideoPoemi degli anni Ottanta erano state le utopie del secolo gli oggetti d’amore e di interrogazione: Majakovskji e Lilj Brik, Velimir Chlàbnikov, Dziga Vertov, Ejsenstein.... La poesia e il cinema come arti di pensiero nuovo, come sguardo complesso sul presente, come rielaborazione delle gigantesche opere del passato, e come nuovo sogno dell’opera d’arte totale: letteratura, musica, teatro e danza, cinema “riletti” e fusi e ricreati nei nuovi linguaggi del video. Poi , dopo i fatti del 1989, la riflessione su un pianeta avviato a una cementificazione urbana e di pensiero: un pianeta tutto uguale, schiacciato sotto il tallone di ferro del mercato, percorso da miliardi di uomini, donne e bambini ridotti a zero (Planetopolis, 1993), in un tempo mangiato e ossessivo, in cui la dolcezza del vivere è affidata a vecchie, struggenti musiche, a brandelli di memoria, a ricordi e barlumi di riscatto. Gran parte di Planetopolis è stata girata in America Latina: si vedono, in metamorfosi di forme e colori, le orribili discariche abitate da spettri in cerca di sopravvivenza; i bambini di strada con le loro sinfonie di vecchi barattoli; i mendicanti; i cartelloni che pubblicizzano le palestre, la CocaCola, oppure Dio, in un delirio indifferenziato di fedi sacre e profane, di chiese e di centri commerciali. Giubileo docet...

Là comincia (anzi prosegue: Gianni Toti ha vissuto a lungo, nella sua lunga vita, in America Centrale e America Latina) un nuovo viaggio, reale e per immagini, nella nuestra America, come si diceva una volta. E Toti (che ha conosciuto Fidel Castro e stretto amicizia con Che Guevara e Salvador Allende) vede ora ingigantirsi l’orrore delle metropoli peruviane e colombiane e brasiliane, ripercorre la storia che ha dato origine a quegli orrori, ripensa la sconfitta degli ideali e delle pratiche che, a un certo punto, sembravano indicare un riscatto per l’intero continente. E lo fa da poeta, anzi da “poetronico” ; e da profondo conoscitore della storia e delle storie latinoamericane, dell’arte, della cultura, del mito.

L’idea, sostenuta produttivamente dal CICV (Centre de Recherche Pierre Schaeffer, Montbliard-Belfort, Francia) è quella di una trilogia, a partire dall’America Latina (dalla Conquista alla Deconquista a venire), sullo sterminio planetario di interi popoli nella cosiddetta era moderna -ancora preistorica, però- . E sulle idee, i sogni non più sognabili, le vitali disperazioni, i pessimismi di un pensiero che deve ri-formarsi, ri-vedere il passato, ricreare le immagini del presente in modo nuovo, aperto alla complessità, al bisogno di verità non retoriche, o forse a quella “semplicit? che è difficile a farsi” con cui Bertolt Brecht designava un comunismo (cosmunismo, come lo chiama Toti) immaginato, mai morto perché mai nato.

Tupac Amauta, quindi, primo canto della trilogia: ispirato a Tupac Amaru, re inca trucidato nel 1572 dai conquistadores; e a Tupac Amaru II, che (scrive Toti) “nove anni prima della Rivoluzione Francese avventò i suoi indios quechua contro ‘la Conquista’ che continuava ( e tuttora continua), aprendo il passo alla Indipendenza subcontinentale e alla prospettiva della Deconquista...” Grande affresco in movimento, Tupac Amauta ricrea - anche grazie alla postproduzione digitale visionaria, orchestrata con il montautore Patrick Zanoli- gli atroci sistemi di supplizio cui intere popolazioni furono sottoposte dai colonizzatori e la figura mitica di Tupac Amauta, divenuta simbolo di resistenza e riscatto: fino a Josè Carlos Mariategui ( leader politico peruviano, morto nel 1930, uno dei più lucidi pensatori dell’America Latina), fino alle immagini del Subcomandante Marcos, fino ai nomi dei militanti uccisi - proprio mentre il video veniva concluso- nell’ambasciata giapponese a Lima.

E con le armonie antiche e potenti dei Chimuchines, archeomusicologi di Santiago del Cile; e con i poemi e le poesie e le canzoni di secoli, anni, giorni, minuti, respiri di rivolta. Le immagini e i suoni incalzano, si sovrappongono, ruotano, svelano i propri dispositivi di linguaggio, accostano come in impreviste assonanze ( o dissonanze, o metafore) le antiche simbologie incas, le incisioni, spezzoni di film, teatri della memoria, astrazioni assolute - che sono, allo stesso tempo, le astrazioni necessarie del pensiero e quelle create dalle odierne macchine per elaborare immagini. Simili alle onde sonore, simili alle rappresentazioni scientifiche. Simili ai primi, ma allora artigianali, tentativi dei pittori-cineasti degli inizi del Novecento.
“Primo canto” della trilogia: così è indicato Tupac Amauta. Ma a distanza di un anno, nel 1999, il secondo canto si trasforma in “secondo grido”. Il canto, la canzone, la parola musicata e musicante lasciano il posto a un urlo, spariscono a favore dell’asserzione, fin dal titolo, di un’angoscia. Gramsciategui ou les poesimistes-Secondo grido. Toti vi lavora, sempre con Patrick Zanoli (ma non dimentichiamo Marie-Laure Florin, e la preziosa collaborazione di Elisa Zurlo alle due opere) e sempre al CICV, quando l’Europa, quella dalle “magnifiche sorti e progressive”, si è lanciata nella vergognosa impresa della cosiddetta guerra umanitaria in Kosovo, scaricando bombe intelligenti su popolazioni inermi e prestandosi coscientemente a un piano di politica internazionale in cui gli USA si proclamano padroni dell’ordine mondiale. Con un’arroganza cui accondiscendono scodinzolando i governanti del nostro continente, in barba alle Costituzioni nazionali e alle appartenenze ideali (questioni da robivecchi....). La conquista continua, così come i genocidi, gli olocausti, lo sterminio - Africa, ex Jugoslavia, Cecenia...ma anche il mare Adriatico coi suoi carichi di carne da macellare o da affondare, i vergognosi lager per immigrati, lo stretto di Dover con i suoi container che diventano camere della morte...- e la guerra col suo colore livido entra nel secondo canto della trilogia, lo trasforma in grido, “grido crudele e disperato”.

Gramsciategui - il titolo mescola nel nome congiunto “il pessimismo eroico” di due teorici rivoluzionari del nostro secolo e con forti affinit?, Antonio Gramsci e Josè Carlos Mariategui (nel video “dialogano” in due spezzoni cinematografici accostati)- abbandona gli affreschi in movimento, le dolci musiche, le canzoni di lotta, e fa il vuoto: il vuoto dell’urlo silenzioso e spaventoso di Munch, di un grido inascoltato. Il vuoto: la vacuità degli sforzi degli “uomini di buona volontà”, la patetica inerzia di qualunque discorso “progressista”. C’è, sì, la dolce canzone che evoca il tempo delle ciliegie, Le temps des cerises, canzone d’amore e di primavera che divenne l’inno della Comune di Parigi: ma ? deformata, resa lontana e irraggiungibile... E c’è, ancora, l’ evocazione di un’ utopia possibile e odierna, quella dei minatori di Tower nel Galles che, a dispetto della (falsa) scienza degli economisti stanno autogestendo con profitto la propria miniera data per morta (Jean-Michel Carré ha recentemente realizzato un video su questa esperienza, Charbon ardents, in cui si narra anche della prima bandiera rossa della storia del movimento operaio, ottenuta bagnando un drappo bianco nel sangue di un vitello, dopo un eccidio di minatori. Oggi sulla bandiera rossa di Tower sta scritto “Knowledge is power”). Isole cui però -sembra dire Toti- non c’è da approdare, ne’ da aggrapparsi. Il vuoto, l’urlo silenzioso, le immagini astratte, le invenzioni acusmatiche di Monique Jean e Luigi Ceccarelli, sono lo spazio di un pensiero radicalmente pessimista, che ha perduto la speranza (“è solo a favore dei disperati che ci è data la speranza”, scriveva Ernest Marcuse negli anni Sessanta. “E’ solo a favore dei disperati che abbiamo il dovere della disperazione”, sembra dirci Toti in Gramsciategui , alle soglie del Duemila).

Nessun conforto, nessun alibi per la coscienza di tutti noi, affondatori di fratelli che cercano asilo, bombardatori di umanit? senza colpa, giocatori spregiudicati in borsa, navigatori sulle onde della new economy come i nostri antenati lo furono sulle rotte delle Indie: anzi, forse peggio.
Lo spazio di questo pensiero è da costruire. E Toti, sempre così pronto a riempire lo schermo, a saturarlo di suoni, immagini, parole, musiche, film, danze, teatri, pitture, disegni, qui si affida alle volute rarefatte dell’immagine digitale intessuta sapientemente nell’arco di mesi, giorno dopo giorno, per fare spazio e per costruire la necessità di un silenzio che non può più essere abitato dal conforto di facili (o difficili) speranze. Poesimismo, la parola coniata da Toti per indicare nel titolo i due pensatori, unisce del resto in un unico termine la poesia (poiesis, che ha come radice greca il fare) e il pessimismo, che sembra designare la negazione del fare, o comunque una visione negativa. Parola anche ossimora dunque, che indica forse la necessità di un fare lucido e disperato, o di una negazione produttiva. E di una poesia mai riconciliata, mai consolatoria, mai serva del cinismo dei “buoni sentimenti”. Del resto, il terzo canto o grido della trilogia, che avrebbe dovuto occuparsi del mito inca del Pachacuti, la riscossa e la deconquista (“l’anticatastrofe liberatoria”, scrive Toti), si è trasformato, nell’annuncio contenuto nei titoli di coda di Gramsciategui, ne “Il tronfio trionfo della morte”...La speranza di riscossa rovesciata nel suo opposto, la certezza della disfatta. O forse no?

Ma ecco Gramsci, proprio lui, il poesimista morto di galera fascista, autore della celebre formula “pessimismo della ragione, ottimismo della volontà”: eccolo nello spezzone di un vecchio film girato a Mosca nel 1921. Toti ne scontorna la figurina già piccola e scura, infagottata in un cappotto troppo grande. Lo isola, lo fa procedere nel vuoto, ne ripete i passi, rende insistente, tenace, attuale il suo incedere nello spazio deserto. Poi il video torna all’indietro, lo rileggiamo rapidamente a ritroso, come in una sintesi capovolta e quindi con senso e con sensi diversi.

E lui, Gramsci, quando il video finisce è ancora lì, ostinato, e cammina ancora.





















Pincha para leer el ensayo "LAS (IN) SUSTITUIBLES MERCANCIAS EROTICAS" de Gianni Toti en Castellano

domingo, 24 de enero de 2010

Un fragmento de una hora de una charla entre GIANNI TOTI y PIERRE BONGIOVANNI (1995)

Voici un fragment (1 heure) extrait de l’une de nos très nombreuses conversations.

Tupac Amaru from Edison Studio on Vimeo.


Tupac Amaru
la deconquista, il Pachacuti
opera musicale para voz y electronica (1997)
de un poema de Gianni Toti

Progetto visivo e regia - Giulio Latini

Lo spazio e il tempo entro cui si svolge l’azione del testo di Gianni Toti sono lunghi cinquecento anni. Dall’epopea del principe Inca Tupac Amaru, che sollevò gli indios contro i conquistadores nove anni prima della Rivoluzione Francese, fino al più recente sequestro all’ambasciata giapponese, conclusosi con l'efferato sterminio dei guerriglieri Tupac Amaru operato dal deposto presidente del Perù Fujimori.

Una vicenda epica a tinte forti in cui si fondono e si confondono passato e presente uniti nella leggenda della liberazione dei popoli dell’America Latina dai conquistadores di tutti i tempi.

Questo affascinante testo di grande complessità, denso e pieno di invenzioni linguistiche, prende vita in questa avvincente avventura postmoderna, evitando di cadere nella retorica in cui si viene facilmente trascinati affrontando l’argomento di una lotta di liberazione dalla dittatura.

Tupac Amaru vuole dimostrare come la forza espressiva della musica di oggi possa plasmare la parola e dotarla di una carica emozionale che rafforza il significato letterario di origine.

Egualmente la storia si promuove nell’immagine, un’immagine sottratta ad ogni realismo mimetico-descrittivo, che articola nel conflitto delle forme astratte un’apertura al senso e al ritmo dischiuso dalla lingua poetica del testo.

Ballata del futuremoto (o le visioni di un chaosmunista)

L’ ilarotragedia della presenza assenza

Roma… Via Natale del Grande. Pochi carbonari ben informati suonano ad un citofono, attraversano un cortile di un elegante condominio – area Trastevere – ed entrano nei piccoli locali di un raffinato spartano ed appartato teatro da camera, il Metateatro, costretto da progressivi sfratti a rifarsi altro nell’ombra, se non proprio nelle mitiche cantine delle origini, dopo una gloriosa stagione d’avanguardia alle luci della ribalta. Lì il discorso altro di quei cocciuti imboscati delle avanguardie resiste, ignorato dai più, ma con un non esiguo pubblico di fedeli delle ibridazioni dei linguaggi, della resistenza alla vulgata mediatica di massa, del desiderio di essere meta, trans, post e altrove, in un altrove che vuole essere inno alla ‘presenza’, ad un esserci trans alienato, critico e passionale insieme, in lucida pirateria virale. Natale del grande. Ben si attaglia alla pervicace idea che molta grandezza misconosciuta transiti di qui, in silenzio, in attesa di pubblici natali alla coscienza critica canonica.

E’ perciò questo il luogo elettivo di molte delle prime di Marco Palladini, performer idealmente di massa, di masse alternative e trasversali, underground, rock, erotanarcoenergetiche, archeonauta dell’onda anni ’50 – ’70 degli outsider perenni, lucido protagonista in prima fila della lotta politica primi anni settanta, ma precocemente esule e postumo, trasferitosi armi e bagagli nell’arte e nella critica, a proseguire - con altri strumenti - coscienza, memoria critica e rielaborazione; a tessere tempi migliori e altri di rinascita dell’onda.

Il suo lavoro è per essenza ‘borderline’. Partito come critico teatrale, ma presto trasmigrato a diretto impegno creativo, si va lentamente allargando dalla drammaturgia e regia (su una linea filosoficamente sadofila e politicamente brechtiana) e da una poesia fortemente acido sociale e teratolinguistica – alla autobiografia critico sociale, con trattenute tentazioni narrative (una raccolta di racconti).

Il teatro tuttavia resta la sua anima di fondo, come pulsione brechtiano-movimentista a portare, da performer, la parola critico emotiva nel mondo. Così - se già la sua poesia è scritta in vista del performing (e della poesia performativa e sonora e dei suoi happening è stato pioniere, organizzatore e divulgatore attivo in Italia, oltre che promotore critico sulla rivista ‘online’ Le reti di Dedalus, da lui diretta) – sempre più spesso egli si va facendo performer di testi altrui, trasferendo nella parola pubblica del teatro la funzione della critica. Su questa linea stanno le sue rielaborazioni poetico-musicali su Kerouac (nel ’95 e nel ’99), Pasolini, Piazzolla, Artaud, Ginsberg, Baraka, Emilio Villa, e ora lo spettacolo andato in scena al Metateatro di Roma (aprile e poi 24-26 settembre 2009), Ballata del Futuremoto (o le visioni di un chaosmunista), un intelligente e vivificante montaggio di testi e video del recentemente scomparso Gianni Toti. Uno dei tanti misconosciuti ma pregnantemente presenti avanguardisti italiani, e come sempre ben più noto all’estero che in patria. Toti (1924-2007) è stato di tutto poeta, prosatore, drammaturgo, cineasta, video artista, critico e teorico, ma sostanzialmente un vivissimo e iperloico provocatore ed eterodosso come artista e comunista.

Quello di Palladini è dunque – oltre che ovviamente opera di memoria polemica – un gesto di affettuoso omaggio ad un artista a cui lo legavano amicizia personale e affinità di linguaggio.

L’operazione consiste in un montaggio di testi (prose – poesie) e video dell’autore, cuciti in una sequenza che si fa auto-snarrazione dialettica di un percorso esistenziale. Quello che ne emerge è l’ilarotragedia del senso-nonsenso dell’io-cosmo-Toti-non Toti, in una quête infinitantesi di non rinuncia all’agone. Ed è delirio ilare di borborigmi linguistico decostruzionistici, di filosofemi e politichemi capovolti, di idee-corpo e corpi cadaveri e metamorfosi di parole. Una benevola litania ossessiva, incatenata in fughe e riprese logiche. Cadono e si dibattono sotto il fuoco della controversia dialettica i concetti di memoria, identità, scrittura, scelta, unità-pluralità-totalità, esser-esserci-nulla, utopia-disutopia-comunismo-caosmunismo, verità, felicità, menzogna, Dio, creazione. Potrebbe sembrare noioso, ma il tono ed il ritmo della recitazione e del montaggio rendono il tutto una splendida ed unitaria sonata da camera per stragedia personale e dislogismo. Ed in definitiva un inno alla ‘viva e sempiterna presenza, caosmunista’ all’adesione sfuturata e a dispetto di ogni logismo al caosmo vitale, cioè all’eterno cosmo-caos, e perciò vitale e senza direzione, del vivere. In definitiva una dadaistica jarristica innamorata e cocciuta patafisica. E’ un peccato che non esista materiale di scena per lo spettatore, per capire il come del montaggio (si sanno i testi ed i video ‘da cui’, ma non quando li vedi quali siano, e come montati), ma forse proprio perciò si può dire che l’operazione sia riuscita, perché nello spettatore la sensazione si fa non quella di un montaggio, ma di assistere ad un testo unitario con delle sue precise tappe logiche. E questo, prima ancora della sua impressiva presenza scenica, è il merito di Palladini, come scrittore-montatore e regista. La scena del resto è beckettianamente nuda, animata soltanto dai due novelli Vladimiro ed Estragone (Palladini e Severino Saltarelli), e ad intervalli precisi, da brevi intensi brani video, con funzione di comment e di climax poetico logico tragico. Palladini con la maschera di pulcinella (il disordinato, vitale, caotico), Saltarelli in camicia cravatta e cappellaccio grigio, una spalla paritaria cupo seriosa, cervello di fronte all’altro corpo-agitato, cupo amicale introverso e rigoroso: sponda e freno, in dentro dove l’altro è ‘in fuori’.

Ma torniamo al montaggio. La sequenza dei titoli che scandiscono il copione (in mano agli attori, che spesso palesemente lo leggono, ma talora vanno a memoria, soprattutto Palladini) è già di per sé significativa: 1 - I chaosmuni – 2 - Il cosmo del mercato il caosmo – 3 –Ateatrocemente – 4 – Exelta – 5 – Versus – 6 – Fuori campo – 7 – Crisi della crisi – 8 – Disiscritture – 9 – Amanza – 10 - Penti – Menti – 11 – Prima e seconda – 12 – Fessione, ma condivina – 13 – Catastrofia – 14 – Allo specchio – 15 – Cosmunicazione.

Decriptiamone qualche passaggio, per mostrare il meccanismo della creatività totiana, fermo restando il dubbio se la progressione logica sia tutta sua o in parte del montaggio (per altro, a render ciò in parte inessenziale, c’è la nota di scena di Palladini, che parla di totiana ‘circolarità della scrittura).

E’ vero. C’è circolarità. Si comincia con la morte del caosmunista, e si terminerà con la sua polemica resurrezione. Il primo brano è infatti tutto un fuoco di artificio sulla non memoria, in dialogo tra un Toti-Palladini ed un consolatorio Saltarelli -

”…Si ricordano di te quando ti dimenticano […] L’immemoria è una memoria [..] Mi sto dimenticando che mi sto dimenticando [..] Chi ero ? Un comunista, eri […] Non volevi … esserci… sei contento … ma soffri l’immemoria … degli altri [..] io parlavo della vera morte, quella del chaosmunista […] quella morte la stai mormoridendo… “

E’ difficile scegliere tra il decostruzionismo per slittamenti di senso e giochi del contrario, e il concentrarsi a tratti in sintetici neologismi. Diciamo che il processo di decostruzione e sintesi ci pare la cosa più interessante, nonostante la predilezione totica per la deformazione-sintesi neologistica, per il corpo-parola-carne-parola, riuscito spesso, talora un tic idiosincratico.

Ma molto felicemente, quasi alla provenzale (le coblas capfinidas), qui ‘mormoridendo’ sintetizza il senso e il passaggio alla sezione successiva (in versi - ‘Il cosmo del mercato il caosmo). Si tratta di andarsene, senza rumore, da sé stessi, rinunciare ad essere, ma nel senso della catalogazione d’essere (l’occhio degli altri e mio, la ‘memoria’)…

“… […] … ce ne andremo da noi stessi / dai nostri occhi dai nostri servosensi – via / da soli spingendoci con le unghie alla schiena… viaggio senza partenza senza arrivo.. [..]..il minimo è disumanarci de-siderare”.

Segue giustamente, all’autoesilio, la discesa agli inferi del nulla e della solitudine, nella terza sezione (‘Ateatrocemente’). Vediamo allora l’istanza Io de individualizzata traversare un teatro-deserto.

“…Ci sono voluto venire […]..non ne sono ancora tornato […] infinito..teatro…il tutto… vi si nonnullava…la fine danzava in indimensioni.. l’infinita commedia… tornato indietro … mi hanno chiesto il biglietto d’uscita.. Sono rientrato sperando nella folla.. nessuno.. ho camminato per ore in quel deserto petroso.. Forse ci sono arrivato davvero, allo spettacolo infinito… “

Dopo la tabula rasa si pone poi il problema della scelta, libera, non libera, da farsi, e si slitta nel metafisico: la sezione si intitola Exelta, e nella parola è ben sintetizzato tutto il percorso, filologicamente. Ex-elta, fuori o dall’alto, scegliere, tirarsi fuori dall’indifferenziato. Dio non ha avuto scelta: di fronte al nulla poteva solo creare. Dopo la creazione non si può ‘inesistere’, non essere. Dunque Toti deve seguire l’orma divina, divenire è divinire, e deve creare il suo mondo, totessere, essere il proprio tutto. Ed ecco la quarta parte, ‘Versus’… Fare versi, scegliere un verso. Ma la parte è il tutto, l’universo dei molteplici è sempre uno, ‘pars pro toto’… per Toti.. l’universo è sempre il mio universo, e dunque Totiverso. E qui si slitta verso la costruzione. Non essere sé in sé, ma sé per gli altri (versificare), ‘alien in azione’. E la crisi è crisi costituzionale di un eterno presente dove il tempo è illusione, e l’essere incarnazione, è ‘crisi permanente provvisoria’ (settima sezione), arte della crisi trasformativa…

“Faccio la dieta.. perché ho fame… fame lirica visionaria… cancellare la parola felicità.. il perché… fare la punta alle parole.. l’amore è una sovrastruttura… cancellò l’uomo che si era scritto addosso…”.

E così via… Avremo poi il grottesco ‘uomo che ama solo il suo lontano.. i tutti.. che non esistono.. Ma esistono solo gli uni… ‘, e un dio che confessa al suo confessore la colpa della sua inesprimibilità, e la natura costituzionalmente menzognera della rivelazione della verità (..”non ci capisco più niente… Stai cominciando a capire”). Avvicinandosi al finale, prima della resurrezione, ecco gli ultimi colpi. La catastrofe (Catastrofia – sezione 13) è costituzionale all’inessenzialità del cosmo e dell’uomo, ci è coeterna. Ed ecco che l’uomo moderno (ci dice Toti con ironia critica sferzante sul presente) ci si dedica ora a piene mani, con passione – “… ci si dedica alle ultime insensatezze, orge umani vegetali o criminosità spettacolate nella loro autenticità di guerra totale di tutti contro tutti, la lettorturatura degradata a vita, sotto gli occhi delle telecamere.. diffuse.. dappertuttilnulla… Terminerà in un silenzio… inaudito dal silenzio stesso. Nessuno saprà di non sapere.”. Segue una catalogo funerario grottesco dei tipi umani – i superviventi, i viventi massimi, i viventi minimi, i sottovivi. La risposta è ancora un arte del sottrarsi, “ferocemente lottare, solo per il non potere, stando però ben attenti… a non monopolizzare anche il non-potere, perché allora non ci si potrebbe fidare neppure dell’uomo-con-il-non-potere.” Bisogna cancellarsi, “..una grossa mano… il foglio su cui sarei (stato) scritto.. lo accartoccia… Io mi accartoccerò.. agir da pazzo ma fuori, verso altrui, così da saper se altri reagiranno...”

Ed ecco l’ultima sezione – ‘Cosmunicazione’ - la falsa comunicazione universale che diventa ‘ignotizia’ (“Ora tutti sanno, come prima nessuno sapeva nulla.”). “Il Cosmunismo irreale ha vinto…” – “arrivati al futuro troveremo / che il futuro non c’è più”. Così si chiude, pessimisticamente, in dissolvenza, ma proprio perciò rimane come rumore di fondo la cocciuta resurrezione individuale del eterno onnipresentificato caosmunista Gianni Toti. Le parole sono magistrali, benché ti stremino nel loro flusso decostruttivo. Ma splendidi ancor più nel loro climax i frammenti di video che intervallano. Sono fatti di geometrie pulsanti e spiralanti di disfacimento e riapparizione, alla Escher, ossessive e metamorfiche, amplificate dalla musica, geometrie dove appaiono uomini manichino derealizzati e frammenti di folle e di scene di guerra.

La recitazione dei due corifei come già accennato, oltre a spartirsi i frammenti di logica e di ruoli, incarna due tipi, luce ribelle e ombra razionale, anche se i ruoli talora si scambiano. Diciamo che prevale scenicamente la sapienza gestuale della voce in Palladini, generoso di toni alti e di slanci, di smarrimenti e di impulsivi grotteschi ironici, ma più legato nell’uso del corpo (sostanzialmente camminate, con qualche fermo immagine). Saltarelli, prevalentemente attore cinematografico, ma anche da tempo performer di poesia, sceglie invece efficacemente l’immobilità, il gesto misurato e lento degli sguardi, ma il corpo lavora, con parchi spostamenti del viso, o l’incavarsi implosivo, a far da piattaforma alla voce, che svaria abilmente dalla levità mentale al cupo tormento introverso di toni bassi di petto, in dentro, in un sostenuto sobbollire. Quanto a dire che il duo, ed il loro amato oggetto meriterebbero platee più vaste. Comunque l’applauso dei pochi adepti è stato indefesso e focoso.

La locandina
‘Ballata del futuremoto (o le visioni di un chaosmunista)’, da Gianni Toti. Regia: Marco Palladini. Installazione visiva: Carlo Caloro. Interpreti: Marco Palladini, Severino Saltarelli. Materiali di scena: tratti dalle seguenti opere di Gianni Toti:
- L’altra fame (romanzo, 1970)
- I meno lunghi o più lunghi racconti del future moto (prosa, 2003)
- Inenarraviglie (prosa, 2006)
- Chiamiamola poemettànoia (poesie, 1974)
- Il poesimista (poesie, 1978)
- Planetopolis (video poetronico, 1994)
- Tupac Amauta (video poetronico, 1997)
- Gramsciategui ou les poesimistes (video poetronico, 1999)

SACADO DE FOGLI E PAROLE D'ARTE













"La bellezza dell’enigma" es una narración poetica de Gianni Toti, publicada en 1992 con la casa editorial Mancosu. El libro venia acompañado de un cassete con audio que contenia la versión acustica de las poesias presentes en ese volumen. La voz pertenecia al propio Toti. En la pagina enlazada se puede escuchar el archivo completo. Agradezco a Altrascena el haber mencionado la existencia de este espacio, escuchar su voz, tan necesaria como siempre. Disección profunda.

Duracción: 34 min (la primera parte) y 33 min (la segunda parte).

Haz Click aqui para escuchar "La bellezza dell'enigma"
Jean Françoise Neplaz y Gianni Toti el 14 novembre 1992