domingo, 24 de enero de 2010

Ballata del futuremoto (o le visioni di un chaosmunista)

L’ ilarotragedia della presenza assenza

Roma… Via Natale del Grande. Pochi carbonari ben informati suonano ad un citofono, attraversano un cortile di un elegante condominio – area Trastevere – ed entrano nei piccoli locali di un raffinato spartano ed appartato teatro da camera, il Metateatro, costretto da progressivi sfratti a rifarsi altro nell’ombra, se non proprio nelle mitiche cantine delle origini, dopo una gloriosa stagione d’avanguardia alle luci della ribalta. Lì il discorso altro di quei cocciuti imboscati delle avanguardie resiste, ignorato dai più, ma con un non esiguo pubblico di fedeli delle ibridazioni dei linguaggi, della resistenza alla vulgata mediatica di massa, del desiderio di essere meta, trans, post e altrove, in un altrove che vuole essere inno alla ‘presenza’, ad un esserci trans alienato, critico e passionale insieme, in lucida pirateria virale. Natale del grande. Ben si attaglia alla pervicace idea che molta grandezza misconosciuta transiti di qui, in silenzio, in attesa di pubblici natali alla coscienza critica canonica.

E’ perciò questo il luogo elettivo di molte delle prime di Marco Palladini, performer idealmente di massa, di masse alternative e trasversali, underground, rock, erotanarcoenergetiche, archeonauta dell’onda anni ’50 – ’70 degli outsider perenni, lucido protagonista in prima fila della lotta politica primi anni settanta, ma precocemente esule e postumo, trasferitosi armi e bagagli nell’arte e nella critica, a proseguire - con altri strumenti - coscienza, memoria critica e rielaborazione; a tessere tempi migliori e altri di rinascita dell’onda.

Il suo lavoro è per essenza ‘borderline’. Partito come critico teatrale, ma presto trasmigrato a diretto impegno creativo, si va lentamente allargando dalla drammaturgia e regia (su una linea filosoficamente sadofila e politicamente brechtiana) e da una poesia fortemente acido sociale e teratolinguistica – alla autobiografia critico sociale, con trattenute tentazioni narrative (una raccolta di racconti).

Il teatro tuttavia resta la sua anima di fondo, come pulsione brechtiano-movimentista a portare, da performer, la parola critico emotiva nel mondo. Così - se già la sua poesia è scritta in vista del performing (e della poesia performativa e sonora e dei suoi happening è stato pioniere, organizzatore e divulgatore attivo in Italia, oltre che promotore critico sulla rivista ‘online’ Le reti di Dedalus, da lui diretta) – sempre più spesso egli si va facendo performer di testi altrui, trasferendo nella parola pubblica del teatro la funzione della critica. Su questa linea stanno le sue rielaborazioni poetico-musicali su Kerouac (nel ’95 e nel ’99), Pasolini, Piazzolla, Artaud, Ginsberg, Baraka, Emilio Villa, e ora lo spettacolo andato in scena al Metateatro di Roma (aprile e poi 24-26 settembre 2009), Ballata del Futuremoto (o le visioni di un chaosmunista), un intelligente e vivificante montaggio di testi e video del recentemente scomparso Gianni Toti. Uno dei tanti misconosciuti ma pregnantemente presenti avanguardisti italiani, e come sempre ben più noto all’estero che in patria. Toti (1924-2007) è stato di tutto poeta, prosatore, drammaturgo, cineasta, video artista, critico e teorico, ma sostanzialmente un vivissimo e iperloico provocatore ed eterodosso come artista e comunista.

Quello di Palladini è dunque – oltre che ovviamente opera di memoria polemica – un gesto di affettuoso omaggio ad un artista a cui lo legavano amicizia personale e affinità di linguaggio.

L’operazione consiste in un montaggio di testi (prose – poesie) e video dell’autore, cuciti in una sequenza che si fa auto-snarrazione dialettica di un percorso esistenziale. Quello che ne emerge è l’ilarotragedia del senso-nonsenso dell’io-cosmo-Toti-non Toti, in una quête infinitantesi di non rinuncia all’agone. Ed è delirio ilare di borborigmi linguistico decostruzionistici, di filosofemi e politichemi capovolti, di idee-corpo e corpi cadaveri e metamorfosi di parole. Una benevola litania ossessiva, incatenata in fughe e riprese logiche. Cadono e si dibattono sotto il fuoco della controversia dialettica i concetti di memoria, identità, scrittura, scelta, unità-pluralità-totalità, esser-esserci-nulla, utopia-disutopia-comunismo-caosmunismo, verità, felicità, menzogna, Dio, creazione. Potrebbe sembrare noioso, ma il tono ed il ritmo della recitazione e del montaggio rendono il tutto una splendida ed unitaria sonata da camera per stragedia personale e dislogismo. Ed in definitiva un inno alla ‘viva e sempiterna presenza, caosmunista’ all’adesione sfuturata e a dispetto di ogni logismo al caosmo vitale, cioè all’eterno cosmo-caos, e perciò vitale e senza direzione, del vivere. In definitiva una dadaistica jarristica innamorata e cocciuta patafisica. E’ un peccato che non esista materiale di scena per lo spettatore, per capire il come del montaggio (si sanno i testi ed i video ‘da cui’, ma non quando li vedi quali siano, e come montati), ma forse proprio perciò si può dire che l’operazione sia riuscita, perché nello spettatore la sensazione si fa non quella di un montaggio, ma di assistere ad un testo unitario con delle sue precise tappe logiche. E questo, prima ancora della sua impressiva presenza scenica, è il merito di Palladini, come scrittore-montatore e regista. La scena del resto è beckettianamente nuda, animata soltanto dai due novelli Vladimiro ed Estragone (Palladini e Severino Saltarelli), e ad intervalli precisi, da brevi intensi brani video, con funzione di comment e di climax poetico logico tragico. Palladini con la maschera di pulcinella (il disordinato, vitale, caotico), Saltarelli in camicia cravatta e cappellaccio grigio, una spalla paritaria cupo seriosa, cervello di fronte all’altro corpo-agitato, cupo amicale introverso e rigoroso: sponda e freno, in dentro dove l’altro è ‘in fuori’.

Ma torniamo al montaggio. La sequenza dei titoli che scandiscono il copione (in mano agli attori, che spesso palesemente lo leggono, ma talora vanno a memoria, soprattutto Palladini) è già di per sé significativa: 1 - I chaosmuni – 2 - Il cosmo del mercato il caosmo – 3 –Ateatrocemente – 4 – Exelta – 5 – Versus – 6 – Fuori campo – 7 – Crisi della crisi – 8 – Disiscritture – 9 – Amanza – 10 - Penti – Menti – 11 – Prima e seconda – 12 – Fessione, ma condivina – 13 – Catastrofia – 14 – Allo specchio – 15 – Cosmunicazione.

Decriptiamone qualche passaggio, per mostrare il meccanismo della creatività totiana, fermo restando il dubbio se la progressione logica sia tutta sua o in parte del montaggio (per altro, a render ciò in parte inessenziale, c’è la nota di scena di Palladini, che parla di totiana ‘circolarità della scrittura).

E’ vero. C’è circolarità. Si comincia con la morte del caosmunista, e si terminerà con la sua polemica resurrezione. Il primo brano è infatti tutto un fuoco di artificio sulla non memoria, in dialogo tra un Toti-Palladini ed un consolatorio Saltarelli -

”…Si ricordano di te quando ti dimenticano […] L’immemoria è una memoria [..] Mi sto dimenticando che mi sto dimenticando [..] Chi ero ? Un comunista, eri […] Non volevi … esserci… sei contento … ma soffri l’immemoria … degli altri [..] io parlavo della vera morte, quella del chaosmunista […] quella morte la stai mormoridendo… “

E’ difficile scegliere tra il decostruzionismo per slittamenti di senso e giochi del contrario, e il concentrarsi a tratti in sintetici neologismi. Diciamo che il processo di decostruzione e sintesi ci pare la cosa più interessante, nonostante la predilezione totica per la deformazione-sintesi neologistica, per il corpo-parola-carne-parola, riuscito spesso, talora un tic idiosincratico.

Ma molto felicemente, quasi alla provenzale (le coblas capfinidas), qui ‘mormoridendo’ sintetizza il senso e il passaggio alla sezione successiva (in versi - ‘Il cosmo del mercato il caosmo). Si tratta di andarsene, senza rumore, da sé stessi, rinunciare ad essere, ma nel senso della catalogazione d’essere (l’occhio degli altri e mio, la ‘memoria’)…

“… […] … ce ne andremo da noi stessi / dai nostri occhi dai nostri servosensi – via / da soli spingendoci con le unghie alla schiena… viaggio senza partenza senza arrivo.. [..]..il minimo è disumanarci de-siderare”.

Segue giustamente, all’autoesilio, la discesa agli inferi del nulla e della solitudine, nella terza sezione (‘Ateatrocemente’). Vediamo allora l’istanza Io de individualizzata traversare un teatro-deserto.

“…Ci sono voluto venire […]..non ne sono ancora tornato […] infinito..teatro…il tutto… vi si nonnullava…la fine danzava in indimensioni.. l’infinita commedia… tornato indietro … mi hanno chiesto il biglietto d’uscita.. Sono rientrato sperando nella folla.. nessuno.. ho camminato per ore in quel deserto petroso.. Forse ci sono arrivato davvero, allo spettacolo infinito… “

Dopo la tabula rasa si pone poi il problema della scelta, libera, non libera, da farsi, e si slitta nel metafisico: la sezione si intitola Exelta, e nella parola è ben sintetizzato tutto il percorso, filologicamente. Ex-elta, fuori o dall’alto, scegliere, tirarsi fuori dall’indifferenziato. Dio non ha avuto scelta: di fronte al nulla poteva solo creare. Dopo la creazione non si può ‘inesistere’, non essere. Dunque Toti deve seguire l’orma divina, divenire è divinire, e deve creare il suo mondo, totessere, essere il proprio tutto. Ed ecco la quarta parte, ‘Versus’… Fare versi, scegliere un verso. Ma la parte è il tutto, l’universo dei molteplici è sempre uno, ‘pars pro toto’… per Toti.. l’universo è sempre il mio universo, e dunque Totiverso. E qui si slitta verso la costruzione. Non essere sé in sé, ma sé per gli altri (versificare), ‘alien in azione’. E la crisi è crisi costituzionale di un eterno presente dove il tempo è illusione, e l’essere incarnazione, è ‘crisi permanente provvisoria’ (settima sezione), arte della crisi trasformativa…

“Faccio la dieta.. perché ho fame… fame lirica visionaria… cancellare la parola felicità.. il perché… fare la punta alle parole.. l’amore è una sovrastruttura… cancellò l’uomo che si era scritto addosso…”.

E così via… Avremo poi il grottesco ‘uomo che ama solo il suo lontano.. i tutti.. che non esistono.. Ma esistono solo gli uni… ‘, e un dio che confessa al suo confessore la colpa della sua inesprimibilità, e la natura costituzionalmente menzognera della rivelazione della verità (..”non ci capisco più niente… Stai cominciando a capire”). Avvicinandosi al finale, prima della resurrezione, ecco gli ultimi colpi. La catastrofe (Catastrofia – sezione 13) è costituzionale all’inessenzialità del cosmo e dell’uomo, ci è coeterna. Ed ecco che l’uomo moderno (ci dice Toti con ironia critica sferzante sul presente) ci si dedica ora a piene mani, con passione – “… ci si dedica alle ultime insensatezze, orge umani vegetali o criminosità spettacolate nella loro autenticità di guerra totale di tutti contro tutti, la lettorturatura degradata a vita, sotto gli occhi delle telecamere.. diffuse.. dappertuttilnulla… Terminerà in un silenzio… inaudito dal silenzio stesso. Nessuno saprà di non sapere.”. Segue una catalogo funerario grottesco dei tipi umani – i superviventi, i viventi massimi, i viventi minimi, i sottovivi. La risposta è ancora un arte del sottrarsi, “ferocemente lottare, solo per il non potere, stando però ben attenti… a non monopolizzare anche il non-potere, perché allora non ci si potrebbe fidare neppure dell’uomo-con-il-non-potere.” Bisogna cancellarsi, “..una grossa mano… il foglio su cui sarei (stato) scritto.. lo accartoccia… Io mi accartoccerò.. agir da pazzo ma fuori, verso altrui, così da saper se altri reagiranno...”

Ed ecco l’ultima sezione – ‘Cosmunicazione’ - la falsa comunicazione universale che diventa ‘ignotizia’ (“Ora tutti sanno, come prima nessuno sapeva nulla.”). “Il Cosmunismo irreale ha vinto…” – “arrivati al futuro troveremo / che il futuro non c’è più”. Così si chiude, pessimisticamente, in dissolvenza, ma proprio perciò rimane come rumore di fondo la cocciuta resurrezione individuale del eterno onnipresentificato caosmunista Gianni Toti. Le parole sono magistrali, benché ti stremino nel loro flusso decostruttivo. Ma splendidi ancor più nel loro climax i frammenti di video che intervallano. Sono fatti di geometrie pulsanti e spiralanti di disfacimento e riapparizione, alla Escher, ossessive e metamorfiche, amplificate dalla musica, geometrie dove appaiono uomini manichino derealizzati e frammenti di folle e di scene di guerra.

La recitazione dei due corifei come già accennato, oltre a spartirsi i frammenti di logica e di ruoli, incarna due tipi, luce ribelle e ombra razionale, anche se i ruoli talora si scambiano. Diciamo che prevale scenicamente la sapienza gestuale della voce in Palladini, generoso di toni alti e di slanci, di smarrimenti e di impulsivi grotteschi ironici, ma più legato nell’uso del corpo (sostanzialmente camminate, con qualche fermo immagine). Saltarelli, prevalentemente attore cinematografico, ma anche da tempo performer di poesia, sceglie invece efficacemente l’immobilità, il gesto misurato e lento degli sguardi, ma il corpo lavora, con parchi spostamenti del viso, o l’incavarsi implosivo, a far da piattaforma alla voce, che svaria abilmente dalla levità mentale al cupo tormento introverso di toni bassi di petto, in dentro, in un sostenuto sobbollire. Quanto a dire che il duo, ed il loro amato oggetto meriterebbero platee più vaste. Comunque l’applauso dei pochi adepti è stato indefesso e focoso.

La locandina
‘Ballata del futuremoto (o le visioni di un chaosmunista)’, da Gianni Toti. Regia: Marco Palladini. Installazione visiva: Carlo Caloro. Interpreti: Marco Palladini, Severino Saltarelli. Materiali di scena: tratti dalle seguenti opere di Gianni Toti:
- L’altra fame (romanzo, 1970)
- I meno lunghi o più lunghi racconti del future moto (prosa, 2003)
- Inenarraviglie (prosa, 2006)
- Chiamiamola poemettànoia (poesie, 1974)
- Il poesimista (poesie, 1978)
- Planetopolis (video poetronico, 1994)
- Tupac Amauta (video poetronico, 1997)
- Gramsciategui ou les poesimistes (video poetronico, 1999)

SACADO DE FOGLI E PAROLE D'ARTE

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