jueves, 28 de enero de 2010






















Work in regress
(da Viaggio al termine della parola)


col cerebronico e gli interminali
già i futuri commemorizziamo
pessime ottimalizzazioni ottime
pessimazioni poetelematiche
cosmatiche cosmetiche...


dati i dati date le date
alle banche date dei “data”
videostampàtevi in ufanìa:
qui i finzionari che fanno
pensare le macchine che fanno
ciò che spensano e sfanno
quando esonerano il cerebello

qui work in regress. -


Cloniche di ucronie

qualche qualcosa talche talcosa
con un pr(o)emio di talità
un talitario un qualcosario

ci ci-clonano sapete
a-b-cicloni ci fanno
- uclonìa ! uclonìa !

anaclonistiche chi
mere parvenze
pauro paulo pauco paupero

purvulo alessandrulo


Ignotizie

ineffabili le ineffìbule
fibulistiche fabule di ablate
clito non più ridenti
ninfe e glandi labiule
con spine d'acacia ritorte

rivulvoluzione ? trenta
milioni di bucche cucite
già rivulvoluzionate


Brevidia (prime vociferazioni per un Contraddizionario)

ricomincerò dalla tua faccia senza faccia tutta dita

perché se dico ti prendo la mano ti tocco
con queste parole che bucano l'aria

se ti prendo la mano se ti dico ti prendo
la mano ti tocco anche con le parole
con cui ti prendo intanto la mano

se sul silenzuolo ci prendiamo tutto
che altro tocchiamo intangibili intatti
là dove si tocca ciò che non si tocca
con la mano e con la parola?

se noi ci scateniamo allo smontaggio del tatto
con silenzi incrociati a verbi scritti
e nomi d'azione e piccole verghe accentuate
che cosa rimonteremo se non quelle catenule
di polpastrelli tenui muscolature lisce?


contrattacizione

alacriloquente il tuo è un tristilòquio
irsuta lallazione nel poetorio
senza giardino e senza purgazione

meglio tacere paraulando

L'inutilità del poeta di Giorgio Di Costanzo

Colloquio con Gianni Toti


[...]Venerdì 24 aprile, nei locali del Centro culturale del Torrione di Forio... gli ospiti erano Marinka Dallos, Gianni Toti e il prof Peter Sarkozy, docente di letteratura ungherese all'Università di Roma, che ha introdotto la serata con una relazione storico-critica sulla poesia ungherese dalle origini a oggi.
Marinka Dallos e Gianni Toti hanno letto, tra l'altro, testi di Deszo Kosztolany, Attila Joszef, Endre Ady e Miklos Radnoti.
In occasione di questo ennesimo incontro di poesia ho rivolto alcune domande all'amico Gianni Toti.


- Inizio rifacendomi a quanto scrive Stefano Lanuzza in un saggio recente sulla tua poesia: “Gianni Toti, sorta di Jarry italiano che interpreta occasioni esistenziali e storiche, ecologo dell'ideologia avversa all'inquinamento di notizie e ai pestiferi epigoni che tanto ancora adugiano la nostra repubblica letteraria”. Molto brutalmente, ti chiedo: qual'è la funzione del poeta?

Questo tipo di domanda è simile alle domande con cui si organizzano convegni e congressi: qual'è la funzione o il modo dell'intellettuale, del musicista, del filosofo... Questa è una domanda da non porsi o magari essere formulata in modo diverso: non esiste una funzione del poeta. Perché il poeta non è un funzionario, non funge, non adempie, anzi È INUTILE. A questo punto può sembrarti provocatorio, ma se ti dico che il poeta non deve essere utile a nessuno, tutto diventa più chiaro. Non essere utile significa non essere usabile, significa non servire. Se dico che la poesia non serve può sembrare provocatorio, ma se ti dico che la poesia non deve servire a nessuno la cosa è diversa. Se non serve a nessuno allora serve, ma a se stessa. Per questo, dico sempre che la poesia non deve servire neppure la rivoluzione o qualsiasi altra nobile causa. Semmai penso che bisogna fare la rivoluzione perché la rivoluzione serve alla poesia.

Per chiarire meglio questa idea vorrei ricordarti il titolo del mio ultimo libro di poesia, Compoe[to]tibilmente infungibile, che riassume l'idea che la poesia è infungibile, cioé non ha funzioni, che non è compa[to]tibile con se stessa, da cui il neologismo introvabile: incompa[to]bile.


- Una domanda che pongo da anni ai miei amici poeti. Che senso (e utilità) hanno le letture di poesia in pubblico, i festival, dibattiti, tavole rotonde, inchieste, etc?

La risposta a questa seconda domanda è strettamente connessa alla prima. Anche il lettore deve essere infungibile. Il lettore è il poeta di secondo grado e forse dovrebbe essere considerato il poeta di primo grado, essendo il destinatario della poesia, lo scopo della poesia, e quindi ogni operazione culturale dovrebbe essere orientata al massimo rispetto del destinatario. Allo stesso modo in cui il destinatario non deve lasciarsi manipolare dalle strumentalizzazioni delle iniziative.

Ogni lettura, ogni convegno, ogni festival, etc, deve essere diverso da quelli che si tengono oggi. Frettolosi, superficiali, brevi, convulsi. Queste letture sono solo citazioni, riassunti, abbreviazioni e un lavoro ri-creativo di poesia che non dovrebbe essere meno intenso e complesso dello stesso lavoro creativo dell'autore. Le letture che si fanno oggi sono spesso un male minore, servono ad alcuni interessi e fra questi possono essere quelli del singolo poeta per farsi conoscere, ma non servono mai alla poesia. Anzi, nella maggioranza dei casi, servono a dare un'immagine sbagliata alla poesia.

Chi partecipa a queste letture ritiene di essersi avvicinato alla poesia, quando ha ascoltato pochissimi versi o composizioni di qualche autore per cinque minuti (Castelporziano, Piazza di Siena) o un quarto d'ora/mezz'ora nei casi migliori, quando invece è venuto a conoscere soltanto qualche citazione di poesie lette, in genere male, sia dall'autore non abituato alle letture, sia dall'autore col birignao, senza poter distinguere e ricomporre le due facce del segno: il significante ed il significato, cioé l'aspetto sonoro e il referente reale e neppure per poter comprendere il seno della composizione ecc. ecc. e dovremmo forse continuare a lungo...


- Quali sono secondo te le linee di ricerca e sperimentazione poetica più vivaci ed interessanti di quest'ultimo periodo?

La critica più impegnata e responsabile sta cercando di individuare le spinte e i movimenti che si proiettano nel futuro della poesia. In questo senso l'ultimo tentativo compiuto, al di là delle antologie, più o meno settorie, è quello di Renato Barilli: Viaggio al termine della parola*, pubblicato da Feltrinelli. Questo critico individua nel lavoro di alcuni poeti italiani, e tra questi poeti il mio personale lavoro, alcuni elementi che sono stati chiamati anche postmodernisti, che mi sembrano capaci di superare la crisi estrema del senso e del linguaggio della nostra epoca. Tutto è stato già detto e scritto.

Tutte le forme del discorso, tutte le metafore, gli stili sono arrivati alla compiutezza storica e la parola è arrivata al suo estremo limite, il silenzio. Come alternativa abbiamo soltanto l'uso consapevole del già detto e scritto o l'innovazione intraverbale, fondata cioé sull'attacco al sacro nucleo della parola. Questa direzione di lavoro è soltanto una delle possibili vie del futuro della poesia. Personalmente io ritengo che nel passaggio dalla galassia di Gutemberg a quella elettronica si spalanchino per la poesia le strade della tecnologia più avanzata e delle combinazioni artistiche, delle più diverse sensibilità mediante l'uso multiplo delle protesi sensoriali. In altre parole, credo nelle possibilità di realizzare, come io stesso ho già fatto in alcune sperimentazioni elettroniche per la Rai, quella che chiamano la poetronica, ovvero la poesia elettronica.

El Efecto Toti

En 1995 Gianni Toti presentó en Lima sus principales trabajos de videocreación. Antes de 1995 el videoarte tenía aún escasa visibilidad en el panorama local principalmente por la carencia de una "comunidad" que pudiera hacer más valedera la actividad artística en este nuevo medio.

Existían otras razones vinculadas a la falta de conocimiento local en relación al videoarte y por ello el poco interés de los museos y espacios culturales en el Perú por incorporar el vídeo de la misma forma en que ya lo hacían otros países de América Latina. Toti logró mostrar una porción de este panorama internacional. Sin embargo, el trabajo de Toti se caracterizaba por ser absolutamente crítico y complejo. Por eso, podríamos decir que la presentación de Toti en Lima no sólo fue una acción emblemática, sino radical para el panorama local. El siguiente paso se dio gracias al vínculo que Toti generó entre ATA 3 y organizaciones internacionales, principalmente el CICV (Centro Internacional de Creación de Video, Montbelliard-Belfort). Estos vínculos permitieron llevar a cabo, en 1998 la primera edición del Festival Internacional de Vídeo/Arte/Electrónica (que como gesto curioso se nombró segundo festival, apelando a uno realizado en 1977 por Alfonso Castrillón en la Galería del Banco Continental en Lima). El Festival generó una escena local y al mismo tiempo un activo intercambio con artistas y curadores internacionales.

Es innegable el apoyo de Gianni Toti en esta primera etapa y su contribución como mediador del vínculo entre el Perú y América Latina (o como él solía llamar, LatinAmerIndia) y con países Europeos donde este campo era apoyado por instituciones orientadas específicamente a la producción en nuevos medios que tuvieron un auge importante en la década del noventa.
Julio Cortazar:

Escribo desde los quince años, pero sólo a los treinta me animé a publicar un libro de poemas, firmado con seudónimo. He escrito siempre poemas. Adolescente, creí, como tantos, que mi sensación de extrañamiento anunciaba al poeta, y escribí, los poemas que se escribían entonces y que siempre son más fáciles de escribir que la prosa, a esa altura de la vida. Pero no había para más. Me sorprendí por eso cuando, un día en La Habana, Gianni Toti me dijo que de todo lo que había escrito lo que más le gustaba eran mis poemas. Cuando escribí Los reyes ya era dueño de una técnica, que era hija del rigor. Siguieron los cuentos de Betiario, sobre los que ya no tuve ninguna duda. Pero el noviciado había sido largo y duro. Había que tenerse mucha fe, y a la vez había que apoyarse en una permanente desconfianza en sí mismo. En el terreno práctico, esto debía traducirse en no publicar prematuramente, pecado cotidiano en nuestros países.

Joaquín Jordà. La mirada lliure (Laia Manresa)

Lenin Vivo (1970) es un documental elaborado
con todos los documentos sonoros y visuales exis-
tentes que registraban la figura de Vladimir Lenin.
El mediometraje, de treinta y un minutos, fue un
encargo del Partito Comunista Italiano con oca-
sión del centenario del nacimiento del líder políti-
co, y la producción estuvo a cargo de Unitele film,
la productora del partido. Jordà codirigió la pelí-
cula con Gianni Toti, un poeta y crítico de cine
amigo suyo.

El documental, cuya versión original es italiana,
comienza con un discurso político de Lenin con la
pantalla en negro. Acto seguido, la voz en off que
nos guiará a lo largo de todo el metraje nos indica
que se trata de un discurso de Lenin en la plaza
Roja de Moscú, el primero de los tres documentos
fonográficos que se conservan de su voz. A conti-
nuación, comienza un breve repaso biográfico del
político, primero con fotos comentadas por la voz
en off, después, con un montaje de material de
archivo sin sonido para ilustrar la época en que vi-
vió, la Rusia de 1870.

Terminada la introducción, en el minuto cuatro
aproximadamente, la pantalla se vuelve a quedar en
negro y la voz en off presenta lo que constituirá el
cuerpo principal de la película con estas palabras:
''Lenin detestaba el culto como jefe revolucionario.
Ofrecemos a su modestia el testimonio visual de
su vida, y por eso, en el centenario de su nacimien-
to, presentamos sin ningún tipo de manipulación
veintidós fragmentos cinematográficos de Lenin
Wvo.'' Los fragmentos prometidos se ofrecen orde-
nados cronológicamente. Cada uno de ellos está
precedido por un cartel que Índica su fecha. Sobre
este cartel, la voz en off aporta un breve resumen de
las imágenes que se presentan a continuación tal
como fueron filmadas, sin ningún trucaje.

Para hacer el documental, los realizadores pidie-
ron a Moscú todo el material que tuviesen sobre
Lenin. Después de recibirlo y visionario detenida-
mente, se percataron de que el material había sido
manipulado. Si tenían un plano de Lenin movien-
do el brazo mientras hablaba desde una tribuna,
montaban este gesto una vez y otra vez. Utilizaban
un encuadre más corto del mismo plano o hacían
desaparecer la imagen de Trotsky que salía en el
plano general cuando éste pasaba a uno más corto.
Jordà y Toti se propusieron restaurar el material y
dejarlo tal como ellos pensaban que originalmente
fue rodado: ''Mi tarea consistió en la restauración
de la realidad filmada, en la devolución del encua-
dre que suponía original, en la restitución de la
verdad fílmica e histórica'' (Jordà, 1992: 59).
El primer fragmento visual consiste en el primer
Primero de Mayo de la Revolución Soviética (i de
mayo de 1918) y el último data del 30 de octubre
de 1922. El conjunto de todos los documentos
abarca un período de cuatro años y cinco meses de
la vida de Lenin. De los veintidós documentos,
veinte son visuales, uno es sonoro y otro es visual y
sonoro a la vez.

Aparte de algunos Primeros de Mayo y aniver-
sarios de la Revolución, la película ofrece imágenes
de Lenin en los jardines del Kremlin, en varias
inauguraciones de monumentos, funerales de com-
pañeros políticos, discursos y congresos de la Inter-
nacional Comunista.

Aproximadamente en el minuto veinte de la pe-
lícula y con fecha de 1920, el documental incluye
la única secuencia rodada en el ámbito familiar de
Lenin. Las primeras imágenes corresponden al co-
medor y a su habitación, compuesta por una cama
individual, una mesilla de noche y un escritorio. A
continuación, vemos a Lenin sentado al lado de su
mujer. Mientras habla, acaricia con afecto a un
gato que reposa en su falda.

El año 1922 está ilustrado con tres fragmentos.
El primero corresponde al día 20 de mayo. La voz
nos explica que Lenin está enfermo, y las imágenes
nos muestran un balneario donde el líder se ha
retirado para recuperarse. El 2 de octubre regresa a
Moscú. El médico reduce el horario de trabajo del
político de 11 de la mañana a 2 del mediodía y de
6 a 8 de la tarde, un horario que Lenin encuentra
difícil de respetar. Las últimas imágenes de Lenin
vivo, en el minuto veintisiete del mediometraje,
corresponden a Lenin en su estudio el día 30 de
octubre. La voz en off nos explica que el médico le
ha prohibido trabajar.

Aproximadamente en el minuto veintiocho, se
tiñe de negro la pantalla sobre la última imagen
de Lenin y en envolvemos a oír, como al inicio del
filme, la voz del político pronunciando un discur-
so. Se trata del tercer fragmento fonográfico que
incorpora la película. Todavía con la pantalla en
negro, la misma voz en off que nos ha acompañado
hasta ahora nos presenta lo que constituirá la ter-
cera y liltima parte del documental: ''Ùnico frag-
mento poético di Lenin vivo ('El único fragmento
poético de Lenin vivo)'' Se trata de un poema es-
crito por Lenin en el año 1907 que, en la película,
se lee en su traducción italiana: ''Gli anni degli
uragani'' ('Los años de la tempestad'). Con la lec-
tura del poema de fondo, se proyecta un montaje
de imágenes sobre la revolución de los años sesen-
ta. Esta última parte del documental supuso para
Jordà la rotura definitiva de relaciones con el Parti-
to Comunista:

''Allí tuve un serio encontronazo con la censura
del PCI. A la frase 'De Oriente surgirán soles', le
acompañaba una panorámica vertical de abajo
arriba, sobre Mao-Tse-Tung. El responsable ideo-
lógico de turno, una elevadísima jerarquía del Par-
tido, se empeñó en convencerme de que la quitara,
porque dicho desplazamiento hacia arriba per-
judicaba la política internacional del pci. Yo me
empeñaba en mantenerla, o en que la quitaran ellos,
que para eso eran los productores. La solución pac-
tada fue convertir en plano fijo la panorámica.
Godard llevaba razón'' (Jordà, 1992: 59).

Finalmente, la copia actual no incluye la imagen
de Mao, ni con panorámica ni sin ella.
“Un maestro di vita, ma soprattutto un maestro di pensiero, un maestro di dubbio, una persona maieutica…”

“L’unico a fare, intorno alla tecnologia, all’arte elettronica, un discorso umanistico…”

Gramsciategui, ou les poesimistes


"GRAMSCiátegui! Y EL HOMBRE HACE MUNDOS…"

¿Es un verso? ¿Una poesía? ¿Un grito? Gramscientífico suena, el nombre compuesto de Antonio y de José. Gramsci y Mariátegui, una sola palabra. Como si fuese Garibaldategui o Bolivariátegui, une los símbolos del pueblo de Gramsciátegui: la síntesis lingüística, la contracción verbal, la asociación de los lenguajes. ¿Cómo se habla el coraje? ¿Cómo le habla el miedo? Recitándolo, explicaba Wittgenstein…No con modismos sino con gestos, la teatralidad del pensamiento que se re-evoluciona a cada neurona, cada sinápsis.

Así la VideoPoemOpera de Juan Totito, de Gianni Toti, plasma la palabra en movimiento: la imágenes cinematográficas, las imágenes poetrónicas, las imágenes esculptrónicas, las imágenes danzatrónicas, las imágenes verbotrónicas, las imágenes arquitectrónicas, las imágenes cromatrónicas, todas en movimiento finalmente. No como cuando existían solamente las imágenes photográficas, o las cinematográficas en movimientos casi estáticos…Gianni Toti nos ofrece con "Gramsciátegui" las Sonatas en Rojo Mayor (empieza en el movimiento futuráneo).

Junto con las imágenes del Monumento a la Tercera Internacional de Tatlin y de Chlebnikov, semejantes a las imágenes del DNA.(¿vista bien la analogía poética y ri-cerebro-lucionarias?)

En la misma fantasmagoria de la Serpiente Emplumada, de Quetzalcoatl, del Sexto Sol, y del próximo Pachacuti, la "postfecia" de la contra-conquista, la refuturación de los pueblos y la vengaza histórica de los holocaustos.

A nuestras palabras, pocas, pausadas, gritadas (El GRITO de Gramscaitegui, El Grito, no el canto. No cantaremos más, gritaremos. Desde el Castillo de Montbelliard a los Castillitos de LAtinAmerIndia. Y los otros castillos de nuestra poesía.
Gramsci ha muerto. Mariátegui ha muerto. Tupac Amaru ha muerto. Nosotros gritamos. El desespero es fuerte. ¡Los libertadores que se caigan en la leche!

Gianni “Túpac” Toti A tribute to Gianni Toti - José-Carlos Mariátegui

















Considered the ‘father’ of video poetry, Gianni Toti is one of the most interesting and experimental video artists of today’s international scene. It’s difficult to consider Toti a media artist: His experience as a poet, filmmaker, theater writer, journalist, among many other intellectual and artistic participations, took him beyond the aesthetics of the image. He questions and criticizes the image as a mere tool to represent the world and instead he argues that an image is something that is created by the confrontation of man and society.

Toti began to work with video since the early 80’s, defining himself as a ‘poetronic’, a creator that challenges theoretical thinking and cultural action in his insatiable search for new languages in the artistic and scientific creation, bringing to an extreme the visual and electronic poetry, considered by Toti as the sum of all arts in his infatigable search for a total art. His interests in science made him use the most advanced technologies to prepare, in 1986, a series of video poems for L'Imaginaire Scientifique of the Cité des Sciences et de l'Industrie of Paris. In “Orden, Chaos y Phaos”, for example, he uses sophisticated fractal geometry programs to represent a diverse and open interpretation of the theory of chaos, that goes beyond the scientific discovery, where color forms and electronic compositions metamorphose themselves in a complex and systemic set.

Toti doesn’t analyze the world; he tries to change it through our mind, understanding that knowledge cannot be obtained only by traditional ways (what we call ‘western culture’), but also through the reinvention of history, legends, oral traditions, rhythmic forms and popular culture, trying to create a ‘new alphabet’ of the visual. This is why it’s not by coincidence that Toti’s latest works had been related to Latin America, interpreting it as a land of hope for humanity, of new history in their past, in search for their future through traditions, misunderstood by many as ‘old’ or ‘primitive’ traditions, when they are really a mixture of old and new media art, a fusion of cultures and languages.

Historically, media art cannot be only represented from the early avant-garde onwards; we need to consider that media art was present since ancient times. From Shamanistic rituals, that could not even be compared to today’s virtual reality immersions, to musical and artistic developments. We are still analyzing media art as if it is a new way of creation simply because it tends to use electronic technology and digital computers. But I would like to emphasize with Toti that an assortment of “new media ecologies” can be found already in the Pre-Columbian art and techniques. For example, the quipu is a network-technology [1].

Five hundred years ago, western explorers returned from ‘remote areas’ reporting that they had discovered ‘primitive tribes’ with ‘primitive technologies’ and ‘primitive languages’. All those stories proved to be scientifically false, since many of those languages are more complex grammatically than English or even Chinese (languages associated in that time to human civilization). [2]

The language is one of the primary subjects in Toti’s work. Composed of a rich mixture of idiomatic expressions, mostly in French and Italian, but with a deep influence from all the languages of the world, his works require no translation. We can understand it as a new language, a ‘totian’ language, a magic prose, a poematic construction of words that interfere among them to create new ones. In this sense we hear phrases in Quechua, Mic-Mac or Aymara (languages spoken by the ancient Pre-Columbian cultures) that reminds us to the ‘experience of the other’. With language we can invent, every sentence is a new invention, produced by combining familiar elements; the perfection of human inventiveness is linked to the perfection of human language. In his videos Toti is trying to say us that language should be renewed, not technology.

We must think of the linguistic words and the problems of communication. Power is based in thought, not in language, and then we have to define techné, not technology. We cannot speak more on the science of though if we think it’s based on technology, we must first speak of the language of techné.

Deconstructing the music into parts and mixing new and old compositions, as in the case of the languages, have also been present in the work of Gianni Toti: compositions are created with many traditional rhythms and voices. The black screen is also an emblematic symbol at the beginning of his works: the voice of Toti in black reminds us to a dream in which we hear but cannot see, the voice guides us to a new metaphoric space. The voice of Toti is the musical overture to the synthesis of images coming afterwards.

For me, thinking of Gianni Toti is also thinking on my own experience on electronic arts during the last seven years. I found electronic art as a way of creation thanks to Toti, I found Toti thanks to Jose Carlos Mariátegui, my grandfather and one of the greatest Latin-American Marxist thinkers.

Gianni Toti was not only a pioneer in the use of visual language with his video poetries; he was also the first to write about Mariátegui in Italy. In April of 1963, he wrote an article titled “Mariátegui, il Gramsci Americano”, in “La Situazione” journal of poetry and culture directed by Alcide Paolini [3]. Although a long time passed through, more than 30 years since this first article, this was the beginning of a gramsciateguian metaphor, that concretizes with “Tupac Amauta” project [4], as a living essay on LatinAmerIndia’s reality, as Toti calls it; but also planetopolitane, since its the necessary continuation of Planetopolis [5], the poetic essay on the negative utopia of the planetary uninterrupted city. Gianni Toti’s interests are related to the lessons of history: revolutions, scientific discoveries, technological inventions, but specially the revolutionary thoughts when they exceed the facts, “enseignent” anything and deliver signs. Art gives Toti a way of applying the philosophical and scientific thought with an amplitude of dimensions to create, finding new mental models for a new way of anti-describing and re-evolutioning the world.

I first met Gianni Toti in La Habana, Cuba in 1994 during a conference organized by Casa de las Américas in the Centenary of Mariátegui. In that moment I was more related to the technical and scientific research in new media technologies from a humanistic perspective, but I didn’t know how to apply them to real life. Toti spoke to me about electronic art, about how there was a new perspective, a real salvation for humanity in the electronic languages, using the synthetic image as a metaphor of what could be done. The merge between art and science has made possible the application of these new conceptual proposals to space, a virtual space that is shown in Toti’s videos, and reproduced in our minds.

A year after, in 1995, we began the formal activities of ATA with an anthology of Toti’s works. This is also an historic event for the Peruvian electronic art movement, since this was the first of a number of actions that took place in Perú, that expanded to an International Video Art Festival, organized annually in Lima since 1998; the growth in number of Peruvian productions of electronic art from virtually zero to more than 80 works today; a National Price on Video and Electronic Arts, among other initiatives. Every action or questioning that take place in ATA are inspired by Toti: to think on the technique, the art and science as a way of producing works that questions and interprets our time and challenge us in the necessity of the creation of a new human personality…?

During the same time we first met, we began to work together on the development of the VideoPoemOpera “Tupac Amauta”, an original verbal association among the name of Túpac Amaru (the last Inca to struggle for Peruvian independence from the Spanish conquerors) and the quechuan eponymous of José Carlos Mariátegui (‘Amauta’ means ‘master’ in quechua language). Túpac Amauta has a deep pregnancy of meaning, since carries for the first time the figure of the ‘Amauta’ to the allegoric and metaphorical dominance of the electronic language, according to Toti’s words: "an extraordinary linguistic event, since the energy of the mariateguian thought will move from the semantic area of literature and film, to the fusion of all arts with the perspective of total work of syntheatronic art") [6]. The Project Túpac Amauta is composed of three parts, the first two already have been developed: "Tupac Amauta Premier Chant"(1997) and "Gramsciategui ou les poesimistes" (1999). The electronic creation process is being done at the CICV Pierre Schaeffer in Montbéliard Belfort, France.

Toti doesn’t analyze the world; he tries to change it through our mind. As he said once: “How can we speak about Courage? How can we speak about frightening? Not with modisms, but with gestures, with actions, the thought that re-evolves in every neuron, in every single synapses. From the Song to the Cry. We will not sing more, we will cry, from the Castle at Montbéliard to the castles of LatinAmerIndia”. [7]

Some people think that because of the immense possibilities of the electronic image, Toti’s work are just a pile of electronic effects and ready made plug-ins used to an extended degree. This is not true in the case of Toti’s creations; he is interested in revolutionary ways of thinking along with scientific revolutions, ways of seeing the world from the humanistic perspective of a real discovery.

As Toti points out: “In many cases this is a fact that reduces the work to the condition of special effects, or a modern version of an old art. This practice done with no taste shows the traditional aesthetic education rose around the surface of socio-psychological conditionaments. It answers an acceptance of a social mandate entrusted to the artist by the politic-industrial powers. A disfiguration of the pure desire which the more measurement to create a project against the destiny, the institution of predetermined forms of life to carry constant anticipation project of freedom, a non-alienated reconfiguration, a critical thought “. [8]

New media technologies don’t standardize and make much easier to perform the practice of making media from already existing objects. It is not as simply as a cut and paste, the real question is whether the author finds that it is all said using just this kind of metaphor.

In Toti’s works the creative process goes beyond the new technologies. Although for some other artists it could be just a “cut and paste” metaphor, for other more critical ones it is a “cut, paste and trash”, in the sense that they have more possibilities and had became more intrigued in getting what they really want, maning that you can have even hundreds of hours of 'created material' to make a 5 minute work. This is a way synthesis, meaning the artists should be able to really create something new, or just a never-ending work in progress.

The Tupac Amauta project is a work in progress, not a final work; it's a metaphor towards a new way of looking at things, a new way of interpreting that goes beyond technological images. The new digital culture needs to shift from the paradigm of the beautiful image but also of the technological image.

After we see Toti’s works, we are not the same, we feel different, and we think different, as Rose of Luxembourg said: “To think is to think diverse”. This is the diversity of languages that had been the fundamental weapons for Toti’s struggle and fight to change the world. All languages form the diversity and by simple iteration, like in fractal geometry, create complexity, which is what we find in his synthetic and moving images.

Is this diversity that make us define Toti as a man of the world, not as an Italian, not as Greek, not as a French, not as a neo-European, not as Peruvian, not as Latin American. Gianni Toti is simply terrestrial.

Notes:

[1]he quipu was an Incan accounting apparatus consisting of a long rope from which hung secondary cords and various tertiary cords attached to the secondary ones. Knots were made in the cords to represent units, tens, and hundreds.

[2]Diamond, Jared. “The evolution of Human Inventiveness”, in Murphy, Michael P. and O’Neill, Luke A.J. (editors) “What is life? : the next fifty years: speculations on the future of biology”, Cambridge University Press, Cambridge, 1995, pp. 41 - 55.

[3]Toti, Gianni. “Mariátegui, il Gramsci Americano”, La Situazione (rivista bimestrale di poesia e cultura, directed by Alcide Paolini), no. 25 – 26, Italy, April 1963, pp. 46 – 49.

[4]Tupac Amauta VideoPoemOpera. By Gianni Toti, with the co-creation of José-Carlos Mariategui III, Elisa Zurlo, Patrick Zanoli, Gilles Markesi, Sandra Lischi, José Javier Castro. Musique Pré-Colombienne: Les Chimuchines (Claudio Mercado, José Perez Arcem, Guillermo Aste Von Bennewitz, Víctor Rondon, Norman Vilches). Production: Yasmina Demoly (CICV), France, 1997. (Duration: 53'18")

[5]For more information on Planetopolis, see:

Heck, Georges. “Gianni Toti/autour de PLANETOPOLIS”, Realisation: CICV Pierre Schaeffer Montbéliard Belfort, France, December 1996.

Lischi, Sandra. “PlaneToti notes” (Notes pour un voyage dans la "planète Toti", l'univers "poétronique" de l'artiste Gianni Toti: ses idées, ses rêves, Planetopolis, sa planète-maison, ses livres, le monde...), en coproduction avec CICV Pierre Schaeffer Montbéliard Belfort, Italy/France, 1997. (Duration: 30'40")

[6]Handwritten document/manifest by Gianni Toti during the development of Tupac Amauta Project in Lima, Perú (circa 1995).

[7]Handwritten manifest by Gianni Toti for the presentation in Latin America of “Gramsciategui ou les poesimistes” (2000).

[8]Mercier, Marc. Chimaera monographie “Gianni Toti”, Edition du Centre International de Création Vidéo Montbéliard Belfort, France, 1992, pp. 36.

Gramsci cammina ancora? - Sandra Lischi

Scoperta delle Americhe? Quale scoperta? Conquista, semmai, cinica e sanguinosa, di territori pacificamente abitati. A scoprire i conquistatori, semmai, furono gli indigeni di quei territori, quelli che (come indica l’etimologia della parola) erano “nati lì”, i legittimi proprietari. E scoprirono questi vascelli e i loro bianchi navigatori con stupore e meraviglia, contentezza e curiosità, abbigliandosi al meglio per riceverli, allestendo festini e cerimonie. Ben presto sterminati: anche subito, anche lì sulle loro variopinte e ventose e festanti barchette. Per non parlare del dopo. E per non parlare dell’oggi. Ma perché non parlarne, invece?

Tutto questo lo sappiamo? Certo. Ce lo hanno raccontato genitori democratici o insegnanti di buona volontà, e anche qualche film, ormai. Ma cosa cambia, se gli olocausti continuano in tutto il mondo, cinici e sanguinosi? Cosa cambia, se con disinvoltura riusciamo a pronunciare l’impronunciabile espressione guerra umanitaria? Cosa cambia, se poi noi colonizzatori ci lasciamo colonizzare tutti, quanto e più di prima, dai colonizzatori di allora, che ci abbagliano con le loro perline colorate e i loro specchietti (uno fra tutti quello della fine delle ideologie, la più forte e illusoria delle ideologie del nostro tempo?).

Da molti anni Gianni Toti esplora, poeticamente e filosoficamente, il nostro tempo. Forse unico, fra gli autori video internazionali, a creare un discorso sul mondo fatto di immagini potentemente articolate, fino ai limiti estremi delle possibilità dei linguaggi elettronici (e, quindi, fino ai limiti estremi del noto, del già pensato, dell’ovvio, inteso sia come luogo comune dominante che come luogo comune confortevolmente - confortevilmente, direbbe Toti!- alternativo). Non documentari, quindi; non opere classicamente narrative; non saggi sociologici, didascalici, dimostrativi. Ma pensieri formati da e per immagini e suoni, costruzioni da guardare - capire - rielaborare (lavorare) per leggere in modo diverso, necessariamente diverso, il mondo.

Nei VideoPoemi degli anni Ottanta erano state le utopie del secolo gli oggetti d’amore e di interrogazione: Majakovskji e Lilj Brik, Velimir Chlàbnikov, Dziga Vertov, Ejsenstein.... La poesia e il cinema come arti di pensiero nuovo, come sguardo complesso sul presente, come rielaborazione delle gigantesche opere del passato, e come nuovo sogno dell’opera d’arte totale: letteratura, musica, teatro e danza, cinema “riletti” e fusi e ricreati nei nuovi linguaggi del video. Poi , dopo i fatti del 1989, la riflessione su un pianeta avviato a una cementificazione urbana e di pensiero: un pianeta tutto uguale, schiacciato sotto il tallone di ferro del mercato, percorso da miliardi di uomini, donne e bambini ridotti a zero (Planetopolis, 1993), in un tempo mangiato e ossessivo, in cui la dolcezza del vivere è affidata a vecchie, struggenti musiche, a brandelli di memoria, a ricordi e barlumi di riscatto. Gran parte di Planetopolis è stata girata in America Latina: si vedono, in metamorfosi di forme e colori, le orribili discariche abitate da spettri in cerca di sopravvivenza; i bambini di strada con le loro sinfonie di vecchi barattoli; i mendicanti; i cartelloni che pubblicizzano le palestre, la CocaCola, oppure Dio, in un delirio indifferenziato di fedi sacre e profane, di chiese e di centri commerciali. Giubileo docet...

Là comincia (anzi prosegue: Gianni Toti ha vissuto a lungo, nella sua lunga vita, in America Centrale e America Latina) un nuovo viaggio, reale e per immagini, nella nuestra America, come si diceva una volta. E Toti (che ha conosciuto Fidel Castro e stretto amicizia con Che Guevara e Salvador Allende) vede ora ingigantirsi l’orrore delle metropoli peruviane e colombiane e brasiliane, ripercorre la storia che ha dato origine a quegli orrori, ripensa la sconfitta degli ideali e delle pratiche che, a un certo punto, sembravano indicare un riscatto per l’intero continente. E lo fa da poeta, anzi da “poetronico” ; e da profondo conoscitore della storia e delle storie latinoamericane, dell’arte, della cultura, del mito.

L’idea, sostenuta produttivamente dal CICV (Centre de Recherche Pierre Schaeffer, Montbliard-Belfort, Francia) è quella di una trilogia, a partire dall’America Latina (dalla Conquista alla Deconquista a venire), sullo sterminio planetario di interi popoli nella cosiddetta era moderna -ancora preistorica, però- . E sulle idee, i sogni non più sognabili, le vitali disperazioni, i pessimismi di un pensiero che deve ri-formarsi, ri-vedere il passato, ricreare le immagini del presente in modo nuovo, aperto alla complessità, al bisogno di verità non retoriche, o forse a quella “semplicit? che è difficile a farsi” con cui Bertolt Brecht designava un comunismo (cosmunismo, come lo chiama Toti) immaginato, mai morto perché mai nato.

Tupac Amauta, quindi, primo canto della trilogia: ispirato a Tupac Amaru, re inca trucidato nel 1572 dai conquistadores; e a Tupac Amaru II, che (scrive Toti) “nove anni prima della Rivoluzione Francese avventò i suoi indios quechua contro ‘la Conquista’ che continuava ( e tuttora continua), aprendo il passo alla Indipendenza subcontinentale e alla prospettiva della Deconquista...” Grande affresco in movimento, Tupac Amauta ricrea - anche grazie alla postproduzione digitale visionaria, orchestrata con il montautore Patrick Zanoli- gli atroci sistemi di supplizio cui intere popolazioni furono sottoposte dai colonizzatori e la figura mitica di Tupac Amauta, divenuta simbolo di resistenza e riscatto: fino a Josè Carlos Mariategui ( leader politico peruviano, morto nel 1930, uno dei più lucidi pensatori dell’America Latina), fino alle immagini del Subcomandante Marcos, fino ai nomi dei militanti uccisi - proprio mentre il video veniva concluso- nell’ambasciata giapponese a Lima.

E con le armonie antiche e potenti dei Chimuchines, archeomusicologi di Santiago del Cile; e con i poemi e le poesie e le canzoni di secoli, anni, giorni, minuti, respiri di rivolta. Le immagini e i suoni incalzano, si sovrappongono, ruotano, svelano i propri dispositivi di linguaggio, accostano come in impreviste assonanze ( o dissonanze, o metafore) le antiche simbologie incas, le incisioni, spezzoni di film, teatri della memoria, astrazioni assolute - che sono, allo stesso tempo, le astrazioni necessarie del pensiero e quelle create dalle odierne macchine per elaborare immagini. Simili alle onde sonore, simili alle rappresentazioni scientifiche. Simili ai primi, ma allora artigianali, tentativi dei pittori-cineasti degli inizi del Novecento.
“Primo canto” della trilogia: così è indicato Tupac Amauta. Ma a distanza di un anno, nel 1999, il secondo canto si trasforma in “secondo grido”. Il canto, la canzone, la parola musicata e musicante lasciano il posto a un urlo, spariscono a favore dell’asserzione, fin dal titolo, di un’angoscia. Gramsciategui ou les poesimistes-Secondo grido. Toti vi lavora, sempre con Patrick Zanoli (ma non dimentichiamo Marie-Laure Florin, e la preziosa collaborazione di Elisa Zurlo alle due opere) e sempre al CICV, quando l’Europa, quella dalle “magnifiche sorti e progressive”, si è lanciata nella vergognosa impresa della cosiddetta guerra umanitaria in Kosovo, scaricando bombe intelligenti su popolazioni inermi e prestandosi coscientemente a un piano di politica internazionale in cui gli USA si proclamano padroni dell’ordine mondiale. Con un’arroganza cui accondiscendono scodinzolando i governanti del nostro continente, in barba alle Costituzioni nazionali e alle appartenenze ideali (questioni da robivecchi....). La conquista continua, così come i genocidi, gli olocausti, lo sterminio - Africa, ex Jugoslavia, Cecenia...ma anche il mare Adriatico coi suoi carichi di carne da macellare o da affondare, i vergognosi lager per immigrati, lo stretto di Dover con i suoi container che diventano camere della morte...- e la guerra col suo colore livido entra nel secondo canto della trilogia, lo trasforma in grido, “grido crudele e disperato”.

Gramsciategui - il titolo mescola nel nome congiunto “il pessimismo eroico” di due teorici rivoluzionari del nostro secolo e con forti affinit?, Antonio Gramsci e Josè Carlos Mariategui (nel video “dialogano” in due spezzoni cinematografici accostati)- abbandona gli affreschi in movimento, le dolci musiche, le canzoni di lotta, e fa il vuoto: il vuoto dell’urlo silenzioso e spaventoso di Munch, di un grido inascoltato. Il vuoto: la vacuità degli sforzi degli “uomini di buona volontà”, la patetica inerzia di qualunque discorso “progressista”. C’è, sì, la dolce canzone che evoca il tempo delle ciliegie, Le temps des cerises, canzone d’amore e di primavera che divenne l’inno della Comune di Parigi: ma ? deformata, resa lontana e irraggiungibile... E c’è, ancora, l’ evocazione di un’ utopia possibile e odierna, quella dei minatori di Tower nel Galles che, a dispetto della (falsa) scienza degli economisti stanno autogestendo con profitto la propria miniera data per morta (Jean-Michel Carré ha recentemente realizzato un video su questa esperienza, Charbon ardents, in cui si narra anche della prima bandiera rossa della storia del movimento operaio, ottenuta bagnando un drappo bianco nel sangue di un vitello, dopo un eccidio di minatori. Oggi sulla bandiera rossa di Tower sta scritto “Knowledge is power”). Isole cui però -sembra dire Toti- non c’è da approdare, ne’ da aggrapparsi. Il vuoto, l’urlo silenzioso, le immagini astratte, le invenzioni acusmatiche di Monique Jean e Luigi Ceccarelli, sono lo spazio di un pensiero radicalmente pessimista, che ha perduto la speranza (“è solo a favore dei disperati che ci è data la speranza”, scriveva Ernest Marcuse negli anni Sessanta. “E’ solo a favore dei disperati che abbiamo il dovere della disperazione”, sembra dirci Toti in Gramsciategui , alle soglie del Duemila).

Nessun conforto, nessun alibi per la coscienza di tutti noi, affondatori di fratelli che cercano asilo, bombardatori di umanit? senza colpa, giocatori spregiudicati in borsa, navigatori sulle onde della new economy come i nostri antenati lo furono sulle rotte delle Indie: anzi, forse peggio.
Lo spazio di questo pensiero è da costruire. E Toti, sempre così pronto a riempire lo schermo, a saturarlo di suoni, immagini, parole, musiche, film, danze, teatri, pitture, disegni, qui si affida alle volute rarefatte dell’immagine digitale intessuta sapientemente nell’arco di mesi, giorno dopo giorno, per fare spazio e per costruire la necessità di un silenzio che non può più essere abitato dal conforto di facili (o difficili) speranze. Poesimismo, la parola coniata da Toti per indicare nel titolo i due pensatori, unisce del resto in un unico termine la poesia (poiesis, che ha come radice greca il fare) e il pessimismo, che sembra designare la negazione del fare, o comunque una visione negativa. Parola anche ossimora dunque, che indica forse la necessità di un fare lucido e disperato, o di una negazione produttiva. E di una poesia mai riconciliata, mai consolatoria, mai serva del cinismo dei “buoni sentimenti”. Del resto, il terzo canto o grido della trilogia, che avrebbe dovuto occuparsi del mito inca del Pachacuti, la riscossa e la deconquista (“l’anticatastrofe liberatoria”, scrive Toti), si è trasformato, nell’annuncio contenuto nei titoli di coda di Gramsciategui, ne “Il tronfio trionfo della morte”...La speranza di riscossa rovesciata nel suo opposto, la certezza della disfatta. O forse no?

Ma ecco Gramsci, proprio lui, il poesimista morto di galera fascista, autore della celebre formula “pessimismo della ragione, ottimismo della volontà”: eccolo nello spezzone di un vecchio film girato a Mosca nel 1921. Toti ne scontorna la figurina già piccola e scura, infagottata in un cappotto troppo grande. Lo isola, lo fa procedere nel vuoto, ne ripete i passi, rende insistente, tenace, attuale il suo incedere nello spazio deserto. Poi il video torna all’indietro, lo rileggiamo rapidamente a ritroso, come in una sintesi capovolta e quindi con senso e con sensi diversi.

E lui, Gramsci, quando il video finisce è ancora lì, ostinato, e cammina ancora.





















Pincha para leer el ensayo "LAS (IN) SUSTITUIBLES MERCANCIAS EROTICAS" de Gianni Toti en Castellano

domingo, 24 de enero de 2010

Un fragmento de una hora de una charla entre GIANNI TOTI y PIERRE BONGIOVANNI (1995)

Voici un fragment (1 heure) extrait de l’une de nos très nombreuses conversations.

Tupac Amaru from Edison Studio on Vimeo.


Tupac Amaru
la deconquista, il Pachacuti
opera musicale para voz y electronica (1997)
de un poema de Gianni Toti

Progetto visivo e regia - Giulio Latini

Lo spazio e il tempo entro cui si svolge l’azione del testo di Gianni Toti sono lunghi cinquecento anni. Dall’epopea del principe Inca Tupac Amaru, che sollevò gli indios contro i conquistadores nove anni prima della Rivoluzione Francese, fino al più recente sequestro all’ambasciata giapponese, conclusosi con l'efferato sterminio dei guerriglieri Tupac Amaru operato dal deposto presidente del Perù Fujimori.

Una vicenda epica a tinte forti in cui si fondono e si confondono passato e presente uniti nella leggenda della liberazione dei popoli dell’America Latina dai conquistadores di tutti i tempi.

Questo affascinante testo di grande complessità, denso e pieno di invenzioni linguistiche, prende vita in questa avvincente avventura postmoderna, evitando di cadere nella retorica in cui si viene facilmente trascinati affrontando l’argomento di una lotta di liberazione dalla dittatura.

Tupac Amaru vuole dimostrare come la forza espressiva della musica di oggi possa plasmare la parola e dotarla di una carica emozionale che rafforza il significato letterario di origine.

Egualmente la storia si promuove nell’immagine, un’immagine sottratta ad ogni realismo mimetico-descrittivo, che articola nel conflitto delle forme astratte un’apertura al senso e al ritmo dischiuso dalla lingua poetica del testo.

Ballata del futuremoto (o le visioni di un chaosmunista)

L’ ilarotragedia della presenza assenza

Roma… Via Natale del Grande. Pochi carbonari ben informati suonano ad un citofono, attraversano un cortile di un elegante condominio – area Trastevere – ed entrano nei piccoli locali di un raffinato spartano ed appartato teatro da camera, il Metateatro, costretto da progressivi sfratti a rifarsi altro nell’ombra, se non proprio nelle mitiche cantine delle origini, dopo una gloriosa stagione d’avanguardia alle luci della ribalta. Lì il discorso altro di quei cocciuti imboscati delle avanguardie resiste, ignorato dai più, ma con un non esiguo pubblico di fedeli delle ibridazioni dei linguaggi, della resistenza alla vulgata mediatica di massa, del desiderio di essere meta, trans, post e altrove, in un altrove che vuole essere inno alla ‘presenza’, ad un esserci trans alienato, critico e passionale insieme, in lucida pirateria virale. Natale del grande. Ben si attaglia alla pervicace idea che molta grandezza misconosciuta transiti di qui, in silenzio, in attesa di pubblici natali alla coscienza critica canonica.

E’ perciò questo il luogo elettivo di molte delle prime di Marco Palladini, performer idealmente di massa, di masse alternative e trasversali, underground, rock, erotanarcoenergetiche, archeonauta dell’onda anni ’50 – ’70 degli outsider perenni, lucido protagonista in prima fila della lotta politica primi anni settanta, ma precocemente esule e postumo, trasferitosi armi e bagagli nell’arte e nella critica, a proseguire - con altri strumenti - coscienza, memoria critica e rielaborazione; a tessere tempi migliori e altri di rinascita dell’onda.

Il suo lavoro è per essenza ‘borderline’. Partito come critico teatrale, ma presto trasmigrato a diretto impegno creativo, si va lentamente allargando dalla drammaturgia e regia (su una linea filosoficamente sadofila e politicamente brechtiana) e da una poesia fortemente acido sociale e teratolinguistica – alla autobiografia critico sociale, con trattenute tentazioni narrative (una raccolta di racconti).

Il teatro tuttavia resta la sua anima di fondo, come pulsione brechtiano-movimentista a portare, da performer, la parola critico emotiva nel mondo. Così - se già la sua poesia è scritta in vista del performing (e della poesia performativa e sonora e dei suoi happening è stato pioniere, organizzatore e divulgatore attivo in Italia, oltre che promotore critico sulla rivista ‘online’ Le reti di Dedalus, da lui diretta) – sempre più spesso egli si va facendo performer di testi altrui, trasferendo nella parola pubblica del teatro la funzione della critica. Su questa linea stanno le sue rielaborazioni poetico-musicali su Kerouac (nel ’95 e nel ’99), Pasolini, Piazzolla, Artaud, Ginsberg, Baraka, Emilio Villa, e ora lo spettacolo andato in scena al Metateatro di Roma (aprile e poi 24-26 settembre 2009), Ballata del Futuremoto (o le visioni di un chaosmunista), un intelligente e vivificante montaggio di testi e video del recentemente scomparso Gianni Toti. Uno dei tanti misconosciuti ma pregnantemente presenti avanguardisti italiani, e come sempre ben più noto all’estero che in patria. Toti (1924-2007) è stato di tutto poeta, prosatore, drammaturgo, cineasta, video artista, critico e teorico, ma sostanzialmente un vivissimo e iperloico provocatore ed eterodosso come artista e comunista.

Quello di Palladini è dunque – oltre che ovviamente opera di memoria polemica – un gesto di affettuoso omaggio ad un artista a cui lo legavano amicizia personale e affinità di linguaggio.

L’operazione consiste in un montaggio di testi (prose – poesie) e video dell’autore, cuciti in una sequenza che si fa auto-snarrazione dialettica di un percorso esistenziale. Quello che ne emerge è l’ilarotragedia del senso-nonsenso dell’io-cosmo-Toti-non Toti, in una quête infinitantesi di non rinuncia all’agone. Ed è delirio ilare di borborigmi linguistico decostruzionistici, di filosofemi e politichemi capovolti, di idee-corpo e corpi cadaveri e metamorfosi di parole. Una benevola litania ossessiva, incatenata in fughe e riprese logiche. Cadono e si dibattono sotto il fuoco della controversia dialettica i concetti di memoria, identità, scrittura, scelta, unità-pluralità-totalità, esser-esserci-nulla, utopia-disutopia-comunismo-caosmunismo, verità, felicità, menzogna, Dio, creazione. Potrebbe sembrare noioso, ma il tono ed il ritmo della recitazione e del montaggio rendono il tutto una splendida ed unitaria sonata da camera per stragedia personale e dislogismo. Ed in definitiva un inno alla ‘viva e sempiterna presenza, caosmunista’ all’adesione sfuturata e a dispetto di ogni logismo al caosmo vitale, cioè all’eterno cosmo-caos, e perciò vitale e senza direzione, del vivere. In definitiva una dadaistica jarristica innamorata e cocciuta patafisica. E’ un peccato che non esista materiale di scena per lo spettatore, per capire il come del montaggio (si sanno i testi ed i video ‘da cui’, ma non quando li vedi quali siano, e come montati), ma forse proprio perciò si può dire che l’operazione sia riuscita, perché nello spettatore la sensazione si fa non quella di un montaggio, ma di assistere ad un testo unitario con delle sue precise tappe logiche. E questo, prima ancora della sua impressiva presenza scenica, è il merito di Palladini, come scrittore-montatore e regista. La scena del resto è beckettianamente nuda, animata soltanto dai due novelli Vladimiro ed Estragone (Palladini e Severino Saltarelli), e ad intervalli precisi, da brevi intensi brani video, con funzione di comment e di climax poetico logico tragico. Palladini con la maschera di pulcinella (il disordinato, vitale, caotico), Saltarelli in camicia cravatta e cappellaccio grigio, una spalla paritaria cupo seriosa, cervello di fronte all’altro corpo-agitato, cupo amicale introverso e rigoroso: sponda e freno, in dentro dove l’altro è ‘in fuori’.

Ma torniamo al montaggio. La sequenza dei titoli che scandiscono il copione (in mano agli attori, che spesso palesemente lo leggono, ma talora vanno a memoria, soprattutto Palladini) è già di per sé significativa: 1 - I chaosmuni – 2 - Il cosmo del mercato il caosmo – 3 –Ateatrocemente – 4 – Exelta – 5 – Versus – 6 – Fuori campo – 7 – Crisi della crisi – 8 – Disiscritture – 9 – Amanza – 10 - Penti – Menti – 11 – Prima e seconda – 12 – Fessione, ma condivina – 13 – Catastrofia – 14 – Allo specchio – 15 – Cosmunicazione.

Decriptiamone qualche passaggio, per mostrare il meccanismo della creatività totiana, fermo restando il dubbio se la progressione logica sia tutta sua o in parte del montaggio (per altro, a render ciò in parte inessenziale, c’è la nota di scena di Palladini, che parla di totiana ‘circolarità della scrittura).

E’ vero. C’è circolarità. Si comincia con la morte del caosmunista, e si terminerà con la sua polemica resurrezione. Il primo brano è infatti tutto un fuoco di artificio sulla non memoria, in dialogo tra un Toti-Palladini ed un consolatorio Saltarelli -

”…Si ricordano di te quando ti dimenticano […] L’immemoria è una memoria [..] Mi sto dimenticando che mi sto dimenticando [..] Chi ero ? Un comunista, eri […] Non volevi … esserci… sei contento … ma soffri l’immemoria … degli altri [..] io parlavo della vera morte, quella del chaosmunista […] quella morte la stai mormoridendo… “

E’ difficile scegliere tra il decostruzionismo per slittamenti di senso e giochi del contrario, e il concentrarsi a tratti in sintetici neologismi. Diciamo che il processo di decostruzione e sintesi ci pare la cosa più interessante, nonostante la predilezione totica per la deformazione-sintesi neologistica, per il corpo-parola-carne-parola, riuscito spesso, talora un tic idiosincratico.

Ma molto felicemente, quasi alla provenzale (le coblas capfinidas), qui ‘mormoridendo’ sintetizza il senso e il passaggio alla sezione successiva (in versi - ‘Il cosmo del mercato il caosmo). Si tratta di andarsene, senza rumore, da sé stessi, rinunciare ad essere, ma nel senso della catalogazione d’essere (l’occhio degli altri e mio, la ‘memoria’)…

“… […] … ce ne andremo da noi stessi / dai nostri occhi dai nostri servosensi – via / da soli spingendoci con le unghie alla schiena… viaggio senza partenza senza arrivo.. [..]..il minimo è disumanarci de-siderare”.

Segue giustamente, all’autoesilio, la discesa agli inferi del nulla e della solitudine, nella terza sezione (‘Ateatrocemente’). Vediamo allora l’istanza Io de individualizzata traversare un teatro-deserto.

“…Ci sono voluto venire […]..non ne sono ancora tornato […] infinito..teatro…il tutto… vi si nonnullava…la fine danzava in indimensioni.. l’infinita commedia… tornato indietro … mi hanno chiesto il biglietto d’uscita.. Sono rientrato sperando nella folla.. nessuno.. ho camminato per ore in quel deserto petroso.. Forse ci sono arrivato davvero, allo spettacolo infinito… “

Dopo la tabula rasa si pone poi il problema della scelta, libera, non libera, da farsi, e si slitta nel metafisico: la sezione si intitola Exelta, e nella parola è ben sintetizzato tutto il percorso, filologicamente. Ex-elta, fuori o dall’alto, scegliere, tirarsi fuori dall’indifferenziato. Dio non ha avuto scelta: di fronte al nulla poteva solo creare. Dopo la creazione non si può ‘inesistere’, non essere. Dunque Toti deve seguire l’orma divina, divenire è divinire, e deve creare il suo mondo, totessere, essere il proprio tutto. Ed ecco la quarta parte, ‘Versus’… Fare versi, scegliere un verso. Ma la parte è il tutto, l’universo dei molteplici è sempre uno, ‘pars pro toto’… per Toti.. l’universo è sempre il mio universo, e dunque Totiverso. E qui si slitta verso la costruzione. Non essere sé in sé, ma sé per gli altri (versificare), ‘alien in azione’. E la crisi è crisi costituzionale di un eterno presente dove il tempo è illusione, e l’essere incarnazione, è ‘crisi permanente provvisoria’ (settima sezione), arte della crisi trasformativa…

“Faccio la dieta.. perché ho fame… fame lirica visionaria… cancellare la parola felicità.. il perché… fare la punta alle parole.. l’amore è una sovrastruttura… cancellò l’uomo che si era scritto addosso…”.

E così via… Avremo poi il grottesco ‘uomo che ama solo il suo lontano.. i tutti.. che non esistono.. Ma esistono solo gli uni… ‘, e un dio che confessa al suo confessore la colpa della sua inesprimibilità, e la natura costituzionalmente menzognera della rivelazione della verità (..”non ci capisco più niente… Stai cominciando a capire”). Avvicinandosi al finale, prima della resurrezione, ecco gli ultimi colpi. La catastrofe (Catastrofia – sezione 13) è costituzionale all’inessenzialità del cosmo e dell’uomo, ci è coeterna. Ed ecco che l’uomo moderno (ci dice Toti con ironia critica sferzante sul presente) ci si dedica ora a piene mani, con passione – “… ci si dedica alle ultime insensatezze, orge umani vegetali o criminosità spettacolate nella loro autenticità di guerra totale di tutti contro tutti, la lettorturatura degradata a vita, sotto gli occhi delle telecamere.. diffuse.. dappertuttilnulla… Terminerà in un silenzio… inaudito dal silenzio stesso. Nessuno saprà di non sapere.”. Segue una catalogo funerario grottesco dei tipi umani – i superviventi, i viventi massimi, i viventi minimi, i sottovivi. La risposta è ancora un arte del sottrarsi, “ferocemente lottare, solo per il non potere, stando però ben attenti… a non monopolizzare anche il non-potere, perché allora non ci si potrebbe fidare neppure dell’uomo-con-il-non-potere.” Bisogna cancellarsi, “..una grossa mano… il foglio su cui sarei (stato) scritto.. lo accartoccia… Io mi accartoccerò.. agir da pazzo ma fuori, verso altrui, così da saper se altri reagiranno...”

Ed ecco l’ultima sezione – ‘Cosmunicazione’ - la falsa comunicazione universale che diventa ‘ignotizia’ (“Ora tutti sanno, come prima nessuno sapeva nulla.”). “Il Cosmunismo irreale ha vinto…” – “arrivati al futuro troveremo / che il futuro non c’è più”. Così si chiude, pessimisticamente, in dissolvenza, ma proprio perciò rimane come rumore di fondo la cocciuta resurrezione individuale del eterno onnipresentificato caosmunista Gianni Toti. Le parole sono magistrali, benché ti stremino nel loro flusso decostruttivo. Ma splendidi ancor più nel loro climax i frammenti di video che intervallano. Sono fatti di geometrie pulsanti e spiralanti di disfacimento e riapparizione, alla Escher, ossessive e metamorfiche, amplificate dalla musica, geometrie dove appaiono uomini manichino derealizzati e frammenti di folle e di scene di guerra.

La recitazione dei due corifei come già accennato, oltre a spartirsi i frammenti di logica e di ruoli, incarna due tipi, luce ribelle e ombra razionale, anche se i ruoli talora si scambiano. Diciamo che prevale scenicamente la sapienza gestuale della voce in Palladini, generoso di toni alti e di slanci, di smarrimenti e di impulsivi grotteschi ironici, ma più legato nell’uso del corpo (sostanzialmente camminate, con qualche fermo immagine). Saltarelli, prevalentemente attore cinematografico, ma anche da tempo performer di poesia, sceglie invece efficacemente l’immobilità, il gesto misurato e lento degli sguardi, ma il corpo lavora, con parchi spostamenti del viso, o l’incavarsi implosivo, a far da piattaforma alla voce, che svaria abilmente dalla levità mentale al cupo tormento introverso di toni bassi di petto, in dentro, in un sostenuto sobbollire. Quanto a dire che il duo, ed il loro amato oggetto meriterebbero platee più vaste. Comunque l’applauso dei pochi adepti è stato indefesso e focoso.

La locandina
‘Ballata del futuremoto (o le visioni di un chaosmunista)’, da Gianni Toti. Regia: Marco Palladini. Installazione visiva: Carlo Caloro. Interpreti: Marco Palladini, Severino Saltarelli. Materiali di scena: tratti dalle seguenti opere di Gianni Toti:
- L’altra fame (romanzo, 1970)
- I meno lunghi o più lunghi racconti del future moto (prosa, 2003)
- Inenarraviglie (prosa, 2006)
- Chiamiamola poemettànoia (poesie, 1974)
- Il poesimista (poesie, 1978)
- Planetopolis (video poetronico, 1994)
- Tupac Amauta (video poetronico, 1997)
- Gramsciategui ou les poesimistes (video poetronico, 1999)

SACADO DE FOGLI E PAROLE D'ARTE













"La bellezza dell’enigma" es una narración poetica de Gianni Toti, publicada en 1992 con la casa editorial Mancosu. El libro venia acompañado de un cassete con audio que contenia la versión acustica de las poesias presentes en ese volumen. La voz pertenecia al propio Toti. En la pagina enlazada se puede escuchar el archivo completo. Agradezco a Altrascena el haber mencionado la existencia de este espacio, escuchar su voz, tan necesaria como siempre. Disección profunda.

Duracción: 34 min (la primera parte) y 33 min (la segunda parte).

Haz Click aqui para escuchar "La bellezza dell'enigma"
Jean Françoise Neplaz y Gianni Toti el 14 novembre 1992


viernes, 11 de septiembre de 2009




Delirante: éste es precisamente el adjetivo que desde hace un siglo se propone para calificar la ideología. Desde Marx a Althusser, el problema de fondo de los intelectuales sigue siendo el de la liquidación del «delirio ideológico», es decir, el de la falsa relación con el mundo que mantiene la forma ideológica de la conciencia social, obstaculizando la comparación directa, desviando la acción de su propósito. No es casual que, en los países más férreamente sujetos al dominio de clase, tomemos América Latina, por poner un ejemplo, los políticos más reaccionarios y los intelectuales orgánicos de la conservación que elaboran las formas ideológicas de ese dominio, son llamados «delirantes» por la opinión pública (hasta el punto de que determinados partidos inmediatamente pierden sus «denominaciones» y son simplemente definidos como «delirantes»). En cualquier caso, todavía somos muchos los que deliramos y confundimos terminologías y lenguajes, los que dejamos a un lado los problemas cada vez más urgentes de nuestra época. También la formulación del tema de esta mesa redonda —«Lenguaje e ideología en el film»—denota una confusión desgraciadamente objetiva. Como demuestra la tardía y singular polémica soviético-italiana sobre la vanguardia, existen en el mundo dos acepciones de la ideología: una «positiva» y otra «negativa» (entre comillas porque, a fin de cuentas, estos calificativos se resuelven en sus contrarios), sin que todavía se sepan los motivos que han impedido su diversificación —quizá sea, precisamente, por la conciencia, ideológica, que también se tiene del término ideología—. De forma que cuando se discute sobre «lenguaje e ideología», puede entenderse el problema de las relaciones entre el lenguaje —en nuestro caso, el fílmico—y, por decir algo, la «ideología» revolucionaria de la clase obrera, el compromiso político, la toma de posición de los intelectuales frente a la abominable guerra imperialista del Vietnam o a la peligrosa tendencia de la sociedad capitalista hacia una nueva concentración autoritaria de los poderes públicos; incluso puede entenderse el problema de las relaciones entre el lenguaje cinematográfico y la conciencia deformada de nuestra propia percepción visual, de nuestra relación con la realidad de la vida y con la realidad del arte. Si volvemos a nuestras discusiones de estos días pasados, nos daremos cuenta de que hemos hablado de la ideología pasando de una a otra vertiente de su ambiguo significado.


Por su parte se ha hablado de la ideología en su significado «positivo»: como del patrimonio ideal, de la real y auténtica riqueza de ideas, utopías y proyectos de esta o aquella fuerza social; como de esa forma de conciencia que toma posiciones contra las estructuras sociales que determinan la misma deformación ideológica; como de esa relación establecida con el mundo a través de la cual los hombres y las clases toman conciencia de su puesto en el entramado histórico interviniendo, actuando y viviendo sus acciones; como de ese terreno en el que los hombres pasan de la inconsciencia ideológica, a través de la forma de representación de la ideología, a esa otra forma de «inconsciencia ideológica específica » que se llama conciencia ideológica, pero que no lo es, siendo más bien una relación imaginaria, necesaria para la expresión concreta de una voluntad de intervención humanizante, de un compromiso de transformación del mundo. Por otra parte, se ha hablado de ideología en su significado más negativo: como de esa representación acientífica del mundo que se funda en una ingenua confianza en la validez cognoscitiva de la experiencia inmediata, en la lectura a primera vista del mundo de la vida en cuanto mundo inmediatamente comprensible; como relación deformada de la realidad; como de un terreno de estructuras mentales, de fantasmas visuales, de imágenes ilusorias de la pretendida realidad significante que no tiene relaciones concretas con los objetos pensados y que se impone a la mayoría de la Humanidad sín pasar a través de la conciencia; como de esa actividad especializada en la que la función práctica prevalece sobre la teórica, institucionalizándose y oponiéndose a la toma de conciencia revolucionaria; como la imaginación de las fuerzas sociales que representan los propios intereses en cuanto que intereses comunes a todos los miembros de la sociedad, racionalizándolos y unlversalizándolos, olvidando la función práctica de las ideas abstractas en el momento mismo de su funcionamiento práctico, cayendo así en la ideologización. El motivo de la utilización, en estas dos diversas acepciones, del término de ideología es bastante explicable por el hecho de que, en cualquier caso, se ha hablado de ideología en la forma más ideológica que existe y que, por otra parte, es la única, es decir, «agitando estratos de aire, emitiendo sonidos», adoptando el lenguaje verbal, sistema de representaciones abstracto, ideológico.


Las consecuencias de estos dos diferentes usos del término ideología sin embargo son importantes, porque de uno o del otro se derivan dos maneras distintas de afrontar la obra de arte—o la cosa artística—y de tender hacia su sentido. Diré que cuantos utilicen el término ideología en su acepción «positiva» se cierran la posibilidad de establecer una relación real, no precisamente ideológica, no ilusoria, con la operación artística. Si se considera la ideología, no sólo como una representación ideal de la relación humana con el mundo (por conservadora o revolucionaria que sea), sino también como la posibilidad de una relación con las cosas a través del lenguaje (también artístico) no investido de la falsa conciencia de apariencia, la atención crítica se centra una vez más sobre los significados extraíbles de la obra subespecie ideológica; es decir, se fundamenta todavía en la confianza de reestructurar una relación cognoscitiva con la realidad, no sobre el terreno de la teoría, sino sobre ese mismo de la representación artística en cuanto productora de conocimientos y significados (de esta manera se lleva el lenguaje de las artes al terreno de las operaciones ideológicas, falsamente cognoscitivas). Si por el contrario se rechaza la acepción
seudo-positiva de la ideología, al menos en nuestro ámbito del discurso, y se considera la ideología como inconsciencia deformada y deformante, la atención crítica se centrará sobre el nivel específico de la práctica humana que es la práctica artística, no sobre significados (ideológicos) extraíbles de la obra en cuanto preexistentes en la misma obra, sino en el sentido global (que, en tanto las operaciones definidas como artísticas, tiende a desideologizarse, a desalienarse, a separarse de sus mismos materiales ideologizados-alienados).


Hasta que no se nos sustraiga—en la valoración estética— al dominio de las estructuras ideológicas entendidas como procedimientos (falsamente) cognoscitivos seguiremos prisioneros de una mistificante conciencia del hecho artístico, prolongando la agonía de todos los malentendidos críticos y siguiendo inmersos hasta el cuello en el fango de los (falsos) significados extraídos de las obras de arte. En realidad, seguiremos a la altura de los niveles específicos de la actividad humana (práctica, económica, política, ideológica, científica), sin llegar al nivel de la actividad artística. Resulta curioso: justamente todos hemos llegado a teorizar la actividad poética como racional y profunda, sustrayéndola a las estéticas espiritualístico- románticas, como suele decirse, pero al mismo tiempo muchos hemos negado su función fundamental, que es aquella antideologística. Todos los neo-contenutismos al acecho (en las mismas filas de la vanguardia, entre sus llamadas categorías «ideológicas») insisten, más o menos abiertamente, en la tentativa de reducir la función poética del lenguaje a una función cognoscitiva, significante, es decir, ideológica. Y precisamente esto en nombre de la imaginación—toda ideologística—de una inimaginable sociedad futura sin ideología, en la que todo
posible sistema de representación (por consiguiente, no solamente el sistema burgués o neocapitalista o socialesta, etc., es decir, una concreta forma histórica de representación) desaparezca y sea sustituida por un sistema de representaciones totalmente racionales, científicas, y en el que incluso el arte pueda confundirse con el conocimiento y llegar a ser vida cotidiana (y aquí la ironía althusseriana ayuda mucho en la desmitificación).


En realidad, como las formas ideológicas de la conciencia social son estructuras esenciales y necesarias a la vida histórica de la sociedad «a condición» de su continua superación como representaciones falsas del mundo por parte de la teoría científica, así siempre habrá un nivel de actividad humana que no podrá ser reducido a conocimiento teórico de lo real o a la generalizante cotidianidad de la existencia. Ciencia y artes se baten permanentemente contra las ideologías cada una en su campo específico y ambas en el fondo, como formas utópicas de la conciencia social (por lo menos las «ciencias del hombre »), se han permitido utilizar en toda su «productividad » una formulación engelsiana. Pero acaso nos ocupamos todavía aquí de las relaciones entre ideología y lenguaje por la misma razón por la que, cada vez que se recurre al discurso ideológico, se enmascara una ausencia o una insuficiencia, un retraso o una impaciencia, una necesidad de teoría, en nuestro caso de una teoría del cine. (Como en el campo de la literatura todavía se tiene necesidad de una teoría de la poesía y de una teoría de la prosa, después de las tentativas de las corrientes morfológicas, estructuralistas, etc., así en el campo del cine todavía se tiene necesidad de una teoría del cine como teoría de un lenguaje, como conocimiento no ideológico de su nivel específico de representación.)


Sin embargo, si todavía hablamos sustancialmente en términos de una oposición ideología-lenguaje, quizá es porque estamos ansiosos de seguir la flecha direccional de esta oposición, de dejar la seudo-conciencia ideológica del hecho artístico cinematográfico y de desembocar en la realidad del lenguaje, de vivir sus tensiones, las profundas pulsaciones de sus más dinámicas energías expresivas. Quizá acudiría aquí a la noción, tomada por analogia y oposición a la noción de «campo ideológico», de «campo artístico» antiideológico o desideologizante. Desgraciadamente estamos en los límites del lenguaje crítico, como lo demuestra el asomarse al terreno hasta ahora dominado por la crítica ideológica del hecho artístico de una «nueva crítica» que reconoce la insuficiente radical de los instrumentos de su metalenguaje y se arriesga; ella misma se pretende lenguaje, acto de escritura que supera los límites de las terminologías y de las metodologías críticas, por encima de su misma síntesis e interrelación. Y ya circulan las nuevas monedas de los nuevos o viejos términos tomados en préstamo o transferidos de una serie de semánticas a otra, con todas las dificultades de nomenclatura que esto comporta. La noción de «sentido», por ejemplo.


De Brecht a Barthes, pasando por Merleau-Ponty y Lacan, hasta Pasolini y los «jóvenes críticos» de los metafilms, se proponen arriesgados términos con aureolas semánticas desflecadas y cortantes. Generalmente reconocida la insuficiencia del significado (aunque no se ha reconocido la razón de esta insuficiencia en el carácter ideológico, de ilusoria representación, del significado como variante púdica del viejo «contenido») se ha reivindicado la legitimidad de la búsqueda de un «sentido» que no está contenido en el «significado», pero al contrario, se identifica con el «significante», incluyendo en el «sentido comprometido» de Brecht un «sentido indeciso», el desenlace, la interrogación, lo que, en otros términos, Brecht llamaba «el efecto provocador» de la obra (provocación o estimulación del «voto del espectador», de su toma de posición). Después se nos confesó la difuminada imprecisión del término «sentido» (demasiado fácilmente sustituible por «significado» en el discurso común) y se ha andado a la búsqueda de algún otro sistema para huir de la confusión entre sentido de base, efectos de sentido, sentido contextual, significación, asociaciones extranocionales y extrasemánticas, etc., hasta llegar a la univocidad, y finalmente desembarcar en la orilla de la signifiance de Lacan. Naturalmente, esta bus queda está justificada por el esfuerzo hacia una nueva claridad que es propia de las insatisfacciones de estos últimos años en relación con la «vieja crítica», es decir, la crítica ideológica tradicional. La primacía del significante sobre el significado afirmada por Lacan nos ayuda a superar los límites de esos «dos kilos de lenguaje» que es necesario arrancar a la inercia comunicacional insertándolos en la cadena simbólica, en el juego anticipador del significante, aunque el préstamo de Freud (la significación del sueño inidentificable con la significación de los significantes de la imagen, con la conexión de la trasposición y deslizamiento saussuriano del significado bajo el significante), naturalmente, es arriesgado, como toda utilización voluntariamente arbitraria reconocida del sueño. La función activa del significante se califica como una pasión suya que marca lo significable y lo trasciende a ser significado, pero sin agotarse: en efecto, «esta pasión del significante se convierte en una nueva dimensión de la condición humana, puesto que no es sólo el hombre que habla, sino en él hombre y por medio del hombre el significante habla y su naturaleza se convierte en un tejido de efectos donde se vuelve a encontrar la estructura del lenguaje del que se constituye la materia resonante, en él, más allá de todo lo ha podido concebir la sicología de las ideas, la relación de la palabra» (traduciendo mal el espinoso discurso lacaniano).


Sentido o significancia, el elemento interesante de estas tensiones terminológicas está en la indicación sintomática de un movimiento del lenguaje, de una función activa suya —precisamente una «pasión» suya— que trasciende los significados en una proyección de «consiguientes sentidos». Pero aquí será posible utilizar indiferentemente estos términos, aunque se prefiera el término de sentido para el hallazgo de su misma significación etimológica de sensus, dirección, orientación, flecha señalizadora de la palabra. El mismo Brecht, por otra parte, no obstante su voluntariamente sufrida prisión ideológica, advertía esta tensión de la obra hacia un sentido que trascendiese los significados en que la obra se puede descomponer en sus elementos cuando se hablaba de los «elementos ideológicos activos», pero perecederos en el
tiempo. Superada la validez temporal de estos elementos, «la obra no queda de ningún modo privada de sentido», observaba, efectivamente, Brecht, pero «adquiere otro, es decir, un sentido como "obra"». En otras palabras, en toda «cosa de arte» (obra teatral, o cinematográfica o literaria, etc.) reside al comienzo un sentido ideológico, que después se extingue con el cambio de las condiciones sociocontextuales, y permaneciendo los valores de la obra en cuanto tal: toda tentativa de restituirles un sentido ideológico será una tentativa desesperada. El «sentido » de la obra seguirá instalado en el desarrollo de sus formas, de sus estructuras. Lo que se creían vehículos de significado, es decir, medios, claramente se revelan como fines. Todavía intuía Brecht: «Paralelamente a las transformaciones de la naturaleza, la transformación de la sociedad es un acto de liberación, y es la alegría que nace de dicha liberación lo que el teatro de una era científica debería comunicar», indicando esto no en la transformación de la sociedad, sino en el nuevo «sentido» que de dicha liberación puede nacer artísticamente, esto es lo que deberíamos esperar de lo que definía como «el teatro de una era científica», es decir, un teatro sin falsa conciencia. Y nosotros podemos añadir: un cine de la era científica, es decir, de la era antiideológica, en que la ciencia sustituye a la conciencia deformada y el arte inviste con su fántasis las relaciones reales del hombre sin falsificarlas, no más instrumento de representaciones mistificadoras, sino, al contrario, instrumentando las relaciones humanas para la realización de la obra (¡ ¡ ¡utinam, ojalá, magari!!!).


En este punto, cuantos lamentan el llamado descompromiso artístico confundiéndolo con el descompromiso civil y político encontrarán que se está teorizando «el arte por el arte», temible espantajo (para cuantos quieren «el arte por la revolución» y no «la revolución por el arte»), o algo por el estilo. Y entonces será necesario recordar rápidamente lo que escribía Marx en sus Debates sobre la libertad de prensa en «La Gaceta Renana» en 1842, hace ciento veinticinco años: «el artista en absoluto considera su obra como medio. Son objetos en sí mismos, y tan escasamente son un medio para el artista y para los otros, que sacrifica su existencia a la de ellos cuando es necesario, y, de una manera o de otra, como el predicador religioso, se somete al principio: «obedecer a Dios más que a los hombres», a los hombres entre los que está confinado él mismo, con sus necesidades y deseos de hombre». ¿De esta manera «el arte actúa poco y mal», como dice Blanchot? Para responder sería necesario tener ya un criterio o un instrumento de medida de la influencia del arte sobre la vida social, pero ninguna sociología del arte nos ha proporcionado ninguno. Desde luego, si Marx hubiese seguido sus sueños de juventud y escrito las más bellas novelas del mundo, y no únicamente «algunos capítulos de Scorpio y Félix», quizá habría fascinado a todos, pero el mundo no le habría mirado. Por esto sí es necesario escribir El capital, no Guerra y paz. No es necesario pintar la muerte de César, sino ser Bruto... De acuerdo —¿por qué no?—. Sin embargo, éstas son afirmaciones inverificables. En un futuro planeta comunitario quizá nunca se leerá El capital, pero se seguirá leyendo Guerra y paz. No habrá necesidad de matar a ningún César cuando el Estado-César sea extinguido, pero el Bruto de Shakespeare continuará profundizando en la sensibilidad estética humana. Digamos más bien, como ha constatado Claude Simón en la «Sociedad austríaca de Literatura» en el coloquio sobre «Tradición y revolución», que «ninguna obra de arte ha tenido un peso inmediato en la historia», pero también en la lenta gestación visual del mundo este peso puede ser más o menos grande, o a veces puede acelerar las mutaciones más profundas de nuestra disipada vida, en el deformado campo visual de la conciencia.


Parafraseando, si se me permite, lo que escribía Marx a Minna Kaustky en 1885 a propósito de la influencia que podía tener la literatura comprometida de su tiempo —un film hoy cumple perfectamente su función cuando, haciendo ver (pero ver seriamente, es decir, violentando nuestra retina interior) las relaciones reales, no ideologizadas, entre los hombres, destruye las ilusiones convencionales sobre la naturaleza de estas relaciones, sacude el optimismo del mundo, obligando a dudar de la perennidad del orden visual de nuestra conciencia, aunque el autor no indica una solución, aunque no toma directamente partido—. Debe quedar claro que toda toma de posición por parte de un artista, todas sus «tomas de partido», siendo forzosamente extrañas a sus operaciones de «mostrar», de forzar la vista humana, resultando ideologizantes acabarán por contribuir a reforzar ese momento de nuestra conciencia mistificada que comienza en nuestra aprehensión visual de la representación de lo real. Por esto, cualquier film que, aunque preñado de conciencia revolucionaria, nos envíe sus «mensajes» (entre comillas) en el código de la comunicación convencionada, quizá nos dé cosas útiles y justas, pero sin salir de la seudo-conciencia óptica, remachando de esta forma los vínculos en el mismo momento en que invita a partirlos.


Esto era lo que sabía Einsenstein cuando, a pesar de moverse con dificultad en la red de las fórmulas ideológicas de su época y de su «toma de partido» (probablemente en aquel tiempo parcialmente necesario como reíais para regular ciertas tensiones de masa y presentar la insurrección de la nueva clase dominante en su universalización ideológica), hablaba de algunas de sus realizaciones cinematográficas como de «victorias ideológicas en el campo de la forma» y consideraba Statchka como «el primer ejemplo de arte revolucionario en el que la forma se revela como más importante que el contenido». Estaba mal dicho, pero la sustancia de su discurso se revelaba mejor cuando, profundizando, valoraba su «propuesta de un procedimiento formal bien planteado para afrontar el descubrimiento de un inmenso material histórico-revolucionario». El llamado punto de vista «formalista» (aunque, efectivamente, mejor sería llamarle morfológico-estructural) resaltaba en la indicación del material y del procedimiento de elaboración como «productivo, desde un ángulo visual justamente elegido» (es decir, que violase las «leyes dramáticas universalmente reconocidas»). ¿Productivo de qué? De una revolución, ciertamente, pero de una revolución de la sensibilidad, no de la revolución social que es el mismo material seleccionado para la operación artística: de un «surco en la psique del espectador», sugería Eisenstein, tratando de desembarazar su pensamiento de las jaculatorias ideológicas... Nuevo tipo de mandato social—nueva forma—, desplazamiento semántico —fecundación recíproca de las artes—, comprensión formal del material...: sustancialmente es el procedimiento artístico cinematográfico que «comprende» las nuevas energías sociales, «el material de masa» surgido para imponerse contra el material fabulístico-individual burgués, y que en este material encuentra un nuevo principio ideológico (digamos ese principio de nueva representación, relación de las relaciones, que llega investido de una nueva función histórica transitoria en una nueva sociedad —siempre ideológico, pero autonegándose en virtud de la contradicción que rompe entre poesía e ideología—). Entonces ya, se quiere decir, surgía—sin embargo, entre las nebulosas ideológicas del tiempo—conciencia de la específica función del cine como fuerza de choque visual contra «la inevitable estaticidad del nexo casual de las cosas», contra «la presión cósmica» de las representaciones estratificadas por las diversas formas en que era organizada la falsa conciencia social del pasado, para superarla en nombre de un imperioso motivo de organización de los materiales («productivos») seleccionados, y no para contemplar una pre-verdad. es decir, ideología, sino para hacer una nueva conciencia visual. Todavía de forma ideologística se afirmaba entonces —en contradicción con las fórmulas de los «productores de conciencia» inmediatamente funcional— una vieja idea marxista, es decir, que el medio de la búsqueda forma parte de la verdad, mejor dicho, es la verdad: «es necesario que la búsqueda de la verdad sea ella misma verdad; la verdadera búsqueda es la verdad explicada...». Por lo tanto, no el significado, encerrado en el signo que «hace signos » significa, sino el signo abierto en un movimiento hacia el sentido de la obra entendido como ese abismo sin fondo a que aludía Schiller hablando de «contenidos sin determinación precisa». Sentido de la obra que supera el «límite del signo» y se determina indeterminándose como principio permanente de disolución ideológica. Sentido de la obra que está en la búsqueda, no de la verdad del resultado; en la interrogación y no en la respuesta; en el problema que se propone de nuevo siempre en la obra, no en la solución dada para siempre.


Ejemplificando: ¿qué habrá querido decir, qué nos dice el autor de ese film, cuyos personajes dicen que es necesario hacer la revolución? ¿Que es necesario hacer la revolución? Pero entonces no nos serían necesarios ni ese film ni ese autor. No se escriben libros y no se ruedan films únicamente para crear cajas de resonancia o campos visuales más vastos a las decisiones de la historia: ya se dijo y siempre se dirá mejor a otros niveles de la práctica humana, en las formas utópicas y en las ideológicas de la conciencia social. Pero el autor de ese film con esos personajes que hablan de su exigencia de hacer la revolución para vivir muy bien puede darnos así el sentido de la época de la revolución, el sentido vivo de nuestro descubrimiento sensible de que la existencia para ser vivida debe ser revolución de revoluciones, y no sólo en las épocas de las revoluciones, etc. Por lo tanto: vivimos en esta época de convulsiones naturales humanas y toda nuestra vida, todos nuestros problemas, nuestra cotidianidad, el mismo horizonte de nuestra mirada están ligados a esto; y la perspectiva cambia si nos vemos mientras vivimos esta época revolucionaria y decimos como personajes lo que sabemos por haberlo ya dicho como hombres reales (que era necesario hacer o no la revolución) y advertimos que somos hombres de este tipo hasta el fondo, seamos o no seamos nosotros mismos—hundidos en la butaca del cine—revolucionarios de profesión, como el Diego de JJI guerre est finie.


Entonces es la forma, la organización coherente de los materiales, la estructuración del motivo «productivo» que opera el fenómeno de la «comprensión» de los significados ya incluidos en los signos, en las materias, en la trama de la narración y sobre la época de la revolución, y los dirige, transportándolos, hacia un sentido abierto, sin fondo, más allá de la contingencia, de la actualidad. Con el film de Resnais ha sucedido, por ejemplo, que se ha estrenado en nuestro país precisamente el año de aquella famosa huelga del 1 de mayo, que nunca salía bien y acarreaba tantas angustias y dudas al protagonista, pero que, en cambio, inesperadamente, salió bien. ¿Esta contradicción de la crónica quiere decir, precisamente, que el film es falso? Pero el film no pretendía tener razón cuando planteaba ésta o aquella solución política desde este o ese punto de vista, por parte de quien pensaba ver los detalles concretos del conjunto desde lo general a lo particular y viceversa. El personaje del revolucionario de profesión, en efecto, a veces defiende, contradiciéndose, precisamente la tesis que él mismo combatió, no cree en la visión política general, pero luego vuelve al fuego de la lucha, mientras sus oponentes, a su vez, cambian de parecer, etc.: todo esto no tiene ninguna importancia para los fines de determinar la justicia de una tesis o de otra. Su sentido está en la presentación de «un héroe de nuestro tiempo», es decir, del tiempo en que no sólo ha acabado un determinado tipo de guerra como siempre acaba un tipo de guerra, sino que «ha acabado la época de las cruzadas», como se escribió hace pocos años en Yalta. Si el film es válido, nos habrá dado el sentido de nuestra época en una de sus dimensiones de lo vivido y, dentro de algún tiempo, perdido incluso su «sentido ideológico activo» y secundario, quizá nos restituirá este sentido y otros sentidos (si la productividad de los materiales y su estructuración no está agotada). De otra manera habrán tenido razón cuantos hoy pretendían que el film al menos habría podido comunicar un justo planteamiento político, sin ambigüedad, en los límites históricamente funcionales de la ideología...


Desgraciadamente, nuestra óptica es inerte, como nuestra lengua es parte de la parte social, pasiva y convencional del lenguaje, subordinada a la suma de impresiones sico-físicas depositadas en nuestras circunvolaciones cerebrales, diccionario de miradas-palabras mediante las que nos habla el caótico lenguaje de la realidad apenas controlada ideológicamente. Y la función antiideológica del cine es precisamente la de proporcionarnos una segunda visión desideologizada y desideologizante, la de
corregir la miopía legalizada de la que hablaban los cine-ojo soviéticos. Cuando Dziga Vertov hablaba de la necesidad de buscar una «fresca percepción del mundo» —con el ojo estratégico y potenciado de la cámara cinematográfica—,sostenía la misma necesidad de disputar al ojo humano la representación visual de la realidad que ha sido demostrada todas las veces que, tanto en literatura como en cine, se ha buscado la distancia concencial del resto mostrando el mundo con el ojo de los niños (desde Gisela Elsner a Truffaut, a través de numerosísimas novelas y films), con el ojo de un caballo (en el cuento de Toístoi «Chelstomer»), de un perro (en Vidas Secas, de Nelson Pereira Dos Santos), etc. El efecto de extrañarse es, en el fondo, una restitución de vista fenomenológica a través del artificio técnico, un retorno al mundo de la vida a través de una nueva, originaria «toma de visión» (no de conciencia ideológica). El cine no nos
recuerda lo que ya conocemos, sino que nos presenta el mundo de una manera jamás vista precisamente para hacernos olvidar la falsa relación que entreteníamos con el mundo: no porque lo reconozcamos, sino porque lo vemos por primera vez. Y el sentido de la obra pasa del signatum o nbeto, es decir, del significado inteligible, traducible, etc, al signans o aistheton, es decir, al significante sensible, del signo comunicativo (significante y significado) al signo estético en el que el significado permanece en el significante, la respuesta en la pregunta.


Nos quitamos las gafas ideológicas y nos ponemos las gafas estéticas: vemos... Si después, cuando sales del cine, reconoces el mundo, entonces el film no funciona. Si, por el contrario, tienes ojos nuevos, y ves el mundo por primera vez, y te sientes personaje de la historia del mundo, entonces el film «funciona»: te ha proporcionado una nueva dimensión perceptiva, ha ensanchado la esfera de tu sensibilidad a otros círculos. Su «sentificado » te ha aumentado los sentidos... «Una ampliación de ochenta por sesenta se parece a una pantalla cinematográfica... »: es una frase del cuento de Julio Cortázar Las babas del diablo, del que Antonioni ha sacado más bien clandestinamente la idea de Blow-up, ampliación-explosión, precisamente, pero no sólo de una fotografía puesta en movimiento, sino de la mirada humana cinematografiando en cada instante la realidad; sin embargo, inferior a la realidad que se le muere encima, porque cada hombre no lo es toda, sino sólo a breves relámpagos, se deja accionar, hablar, ver por ella.


El hecho es que el cine-ojo tiene dimensiones temporales y espaciales distintas de aquellas por las que se regula el diafragma y la velocidad del ojo humano, y el cuento de Cortázar, el film de Antonioni —contándonos la historia del detalle fotográfico ampliado y revelando crímenes escondidos a la mirada—nos arroja dentro del drama de nuestra visualidad no sólo de la biológica, sino también de esa otra de la que en el cuento se hace metáfora. «Mirar rezuma falsedad... de todos modos, previendo anticipadamente la probable falsificación, mirar resulta posible», se dice el fotógrafo del cuento cortazariano esperando que el resorte de la reproducción mecánica de la realidad restituya «las cosas de su insípida verdad»; pero «la no insípida verdad» es que desde el objetivo no sólo fotográfico, sino cinematográfico, ve mejor que el objetivo ocular (y entonces ve la muerte escondida, el delito sin fin de la vida, etc.) nuestra óptica interior, nuestro sistema ideológico de representación de las «relaciones entre las relaciones» humano-naturales está en crisis, crisis agravada por la conciencia deformada por la misma crisis —y podemos esperar afrontarla y dominarla sólo intentando ver mejor que lo mejor que ve el cine, diciendo y haciendo decir con su mirada mecánica más de lo más que ya dice con su ventaja sobre nuestro ojo bioideológico.


Por lo tanto, intentando penetrar dentro de la obra para afrontar el sentido que le es interno y al mismo tiempo el sentido que le es ausente, sólo posible, virtual, que puede crecer de las raíces de la obra. La obra transforma pocos elementos de realidad (verdadera y reconstruida, no tiene importancia) en una realidad total escondiéndonos cualquier otro elemento de la realidad, pegando en la base el mundo que queda fuera de la mirada del cuadro móvil, destruyéndolo, engulléndolo en su limitado infinito. Es el eclipse de la realidad por obra de pocos elementos de la realidad misma convertida en realidad total. Pero, igual que precisamente el eclipse nos revela el sol, su relación cósmica con nosotros (y el dedo detrás del que escondemos el bosque también es lo que nos lo indica, distancia y relación), así el sentido de la obra se nos revela en la relación evidenciada entre lo que explícitamente dice, y lo que explícitamente dice no diciéndolo. Ahí se puede verdaderamente relacionar, como hace Pierre Macherey en sus apuntes «para una teoría de la producción», los hechos que pueden ser tantos literarios como cinematográficos a una de las Hinterfragen o «Preguntas insidiosas», de Nietzsche: «A todo lo que un hombre deja hacerse visible se puede preguntar: ¿qué quiere esconder?, ¿de qué quiere desviar la mirada?...», completando y contradiciendo la pregunta con esta otra interrogación: ¿qué quiere mostrarnos precisamente por lo contrario dejándonos medir la distancia entre «el hecho de ver» y «el de no poder ver», sino la relación de su ausencia? Y sacando de aquí la inquietante hipótesis del necesariamente ineludible carácter incompleto de la obra. Un carácter incompleto que no es la indicación de algo que falta y que se puede añadir desde fuera, sino un carácter incompleto que hace el sensificativo carácter completo de la obra que la hace, no insuficiente, sino cargada. Y así hemos entrado de lleno en la autoimpugnación más rabiosa del mismo estructuralismo a la toma con sus protocolos de ruptura, al rechazo de lo «invariable de una presencia (eidos, arché, télos, enérgheis, aléthéia, ousia; sustancia, esencia, existencia, sujeto, trascendentalidad, conciencia, Dios, hombre, etcétera)»—para utilizar la fórmula resumida de Jacques Derrida, ese mismo rechazo que encontramos en Marx cuando se negó a sí mismo «la esencia universal del hombre como fundamento teórico», oponiéndose al idealismo de la esencia y, por consiguiente, a todo humanismo descendiente de la falsa conciencia encerrada en el mito filosófico y teórico del hombre.


Así es que «explicar la obra es, en lugar de remontarse a un centro escondido que le daría la vida (la ilusión interpretativa es organicista y vitalista), verla en su efectiva descentralización; es, por lo tanto, rehusar el principio de un análisis intrínseco (o de una crítica inmanente) que cerraría artificialmente la obra sobre sí misma y, por el hecho que esté completa, deduciría la imagen de una tonalidad» (como dice Macherey, de la misma manera en que Derrida habla del momento en que «el lenguaje invade el campo problemático universal»); entonces es el momento en que, en ausencia de centro y de origen, todo se convierte en discurso, es decir, en sistema en el que el significado central, originario o trascendental jamás está presente, al margen de un sistema de diferencias. Por el que «la ausencia de significado trascendental extiende al infinito el campo y el juego de la significación» y se plantea el problema de «dónde y cómo se produce esa descentralización» (el término —antíideológico por excelencia—se difunde, como se ve, de la misma manera que el concepto de «sentido» a diferentes pero convergentes niveles de la meditación estética y filosófica: y esto también es extremadamente significativo de la toma de conciencia antiideológica de origen marxiano siempre más generalizada), se plantea el problema, decíamos, «de cómo y dónde se produce esta descentralización como pensamiento de la estructuralidad de la estructura».


Y se vuelve a la cuestión de la relación entre significante y significado: reducir o derivar uno u otro, someter el signo al pensamiento o buscar en el significante el momento productivo de otro «sentido», distinto del de su significado, que es precisamente el problema de la poesía y de su conciencia crítica no ideológica-mistificada... La lectura, por lo tanto, se hace autoconscientemente crítica, crítica de la crítica; no para implantar el pequeño proceso penal-estético que, conscientemente o no, cualquiera que lea-vea promueve para resolver con una sentencia y con un premio la controversia crítica-consumatoria —vale y no vale, es bonito o feo, bueno o malo, verdadero o falso—, sino para individualizar la interrogación que crece en la obra, su sentido, es decir, por la captura del sentido en estado salvaje, como si se tratase de una caza y se debiese discutir sobre la eficacia de ésta o aquella trampa, de éste o aquel arma, de ésta o aquella disposición de los cazadores, de éste o aquel tipo de conocimiento o habilidad venatoria. Ninguna metodología crítica agota la obra, ni siquiera la lectura estructuralista. Si hoy todavía nos interrogamos sobre el significado o sobre el sentido de la obra, es porque todas las nociones que nos habíamos formado son insuficientes por sí solas. Meaning of meaning, Sinn o Bedeutung, sentido o significado, etc., porque la especulación, la sicología, la sociología, el historicismo, la estilística, la sicocrítica, el sicoanálisis y el estructuranálisis, etc., no han bastado para encontrar el sentido en la obra y cada una se cierra en su propio «campo», en su espacio homogéneo y coherente, es necesario—sin excluir ninguna metodología, mejor dicho, utilizando todas—moverse hacia la dirección indicada por la obra, su sentido (que no es solamente «un saber específico percibido por una conciencia cuando gusta de una combinación de elementos de los que ninguno en particular ofrecía un saber comparable»—como es el sentido, por ejemplo, según Lévi-Strauss—, sino es el mecanismo de interrogaciones puesto en marcha por este específico sabor de la estructura de la obra, una interrogación sobre la misma necesidad de la «cosa artística» y sobre el tipo de necesidades a las que remite produciendo sentido e incrementando la sensibilidad humana, ensanchando el campo).


En resumidas cuentas, se parte de las condiciones de existencia de la obra, sus principios de realidad y de individualización—historia, acontecimiento, hechos, palabras, personajes, etc.—, se dirige a su estructura o sistema de organización en relación con las otras estructuras de la existencia y después se interroga a la obra, para que nos dé no su respuesta, sino la interrogación misma. Es decir, se debe operar sobre los dos niveles posibles de la articulación de la obra: el de su orden de secuencias y temas v figuras que es su estructura o, mejor, la ilusión de su estructura, necesaria para autoenmascararse en su falsa interioridad, en su inexistente centralidad, y el de la realidad elaborada hasta su representación sistemática que es el fondo ideológico, el horizonte sobre el que se destaca el orden desordenado de la obra. La obra tiene un falso orden, se ha dicho, un orden imaginario que no corresponde a ninguna esencia central,
sino más bien a una descentralidad que se yuxtapone a los desechos, a las violaciones, a la denuncia del ilusorio orden mitológico de la conciencia desesperadamente organizada. Tanto lo que sucede sobre la página como sobre la pantalla es la obra, no los acontecimientos de la obra; es su forma, su estructurarse, su reiterada existencia, su imaginariedad, irrealidad. Y este albedrío suyo es el revelador de la mentira ideológica. Y en esta revelación está el sentido de la obra, su destrucción del significado ideológico incluido en sus mismos principios de autorrealizacíón, en sus materiales de afabulación, en la sucesión de los sucesos regulables según una aparente pero, en realidad, imaginaria coherencia. Y no es que el acontecimiento no sea importante, al contrario. Como decía Brecht, «todo depende del acontecimiento: es el centro de la manifestación (cinematográfica en nuestro caso). Puesto que precisamente por lo que sucede entre los hombres, los hombres mismos conocen todo lo que puede ser discutible, criticable, mutable», es decir, las estructuras de la falsa conciencia. Sin embargo, para obtener
esta anulación y reconstrucción de los sentidos son necesarios desechos lingüísticos y cambios semánticos en los instrumentos de la función práctica del lenguaje.


Por ejemplo, en La Terra vista dalla Luna, de Pasolini, hay un continuo cambio sensificante de materiales y métodos de una serie a la otra, de la realística a la fabulística. Pero, no obstante esto, no hay un «milagro» en la «fábula», es decir, lo que podría parecerlo no lo es. La mujer que, muerta, vuelve entre Totó y Ninetto1 no es
más que la vida a la que nada importa de la muerte que no existe, y que siempre es una muerte ideologizada, de la que se tiene una conciencia distraída (aquí la transferencia
semántica se acopla al desecho estilístico). En la fábula infantil el milagro es un suceso normal, casi naturalista. La coherencia estilística querría que no pareciese otra cosa que lo que es. Pero estos subproletariados tienen verdaderamente hambre y necesidad de un
alojamiento y de una mujer muy realísticamente. Pero descubren que la muerte no existe y se liberan y nos liberan provisionalmente de la conciencia deformada de la muerte, quizá porque son personajes-límites, desclasados, y, por lo tanto, sin necesidad de unlversalizar los propios intereses particulares, es decir, sin la necesidad de una forma ideológica o funcional de conciencia (y, por consiguiente, quizá, en esta constante búsqueda pasoliniana de materiales y personajes del submundo se puede entrever una distraída preocupación antiideologística: ¡aunque esta es una hipótesis!). La operación poética, y de una manera muy especial la cinematográfica, en el fondo no es otra que la operación de hacer tabla rasa y que los filósofos de la praxis aconsejan a todos de buscar, de realizar, para liberarse de alguna manera, aunque provisional, de las falsas estructuras ideológicas. Por lo tanto, el sentido de la obra está en su ser y querer ser inicio, iniciativa, punto de partida, en su construir puertos, muelles, pistas de lanzamiento de la fántasis y de la pbiesis, en su proponerse como tentativa repetible de
experiencia original. Sobre todo, en tiempos graves y desgraciados como los nuestros. Y corresponde a los poetas de la palabra, de la mirada, del sonido, etc. A los amplificadores, multiplicadores, instauradores de nuevos sentidos. ¿Para qué los poetas en tiempos de desgracia? se preguntaba Holderlin, precediendo a Brecht. Sí, ¿para
qué? Arriesguémonos: porque el sentido de su obra es como un vector, profético, una forma utópica de la conciencia social, una anticipación de un tiempo quizá nunca realizable en el que los lenguajes humanos no siempre deberán volver al grado cero para desideologizarse-desalienarse, y no estarán más al servicio del Estado y de sus necesidades de representaciones universales, no deberán tentar más lo útil y lo bello y lo verdadero.


Hoy, mientras las artes afirman, en su sentido-no sentido, el proyecto de una condición humana sin divisiones de trabajo, es decir, sin necesarias servidumbres, en
las que cada cosa —hecha humana— sólo remita a sí misma, objeto cuyo uso se vuelve sobre sí mismo, glorificando su no-uso, como el hombre se remite a sí mismo, anónimamente, libre. Lo hacen con los elementos de los que disponen y que deben redisponer en ritmos específicos de percepción, en nuestro caso en mecanismos métricos- visuales compuestos por materiales que hablan el lenguaje efectivo y virtual de la realidad en su inflexión ideológica casi encarnada en ella, pero para violentarlos
y obligarlos a negarse. La disposición espacial y temporal de estos materiales es tal, en las obras con un sentido más vivo, que el mismo mecanismo visual, su mismo
desarrollarse en el especialísimo espacio móvil de la narración cinematográfica, se autodenuncia como ficción de la ficción ideológica (porque la narración, como confianza expresa en el realismo—relación con la realidad en toma directa—, siempre es ideológica, y, por consiguiente, el límite está precisamente en la lectura sucesiva, en
el tiempo tele-dirigido por la lectura visual). Porque toda narración se constituye como una nueva lengua extranjera que el espectador aprende viéndola-leyéndola por primera vez y que se suicida como lengua en cuanto se ha pronunciado toda; el sentido está en el mismo mecanismo de la lengua con todas sus complicaciones, retrasos, iteraciones, detalles, minucias, derroches descriptivos, desechos lógicos, licencias poéticas, redundancias y antieconomicidades aparentes, métrica anónima. Es un mecanismo que nos abre hojas-párpados de una nueva mirada. Como la pintura extrae del espectro puntos de espectro opuestos llamados colores para actuar con y sobre una realidad no codificada, así el cine extrae del sobreentendido discurso de la realidad extra-lingüística los materiales ideologizables opuestos y contradictorios, para que de su diferencia y de su contacto-choque estalle un sentido absolutamente inédito y se concluya un paso histórico en la construcción de los sentidos del hombre, en la continua creación estética de la especie. La poesía cinematográfica, en resumen, no nos hace no conocer ni reconocer la realidad, nos la hace desconocer—del conocimiento del desconocimiento—, pero precisamente en este desconocimiento de la realidad ideologizada toma la iniciativa una nueva conciencia visual. Por esto los films más importantes de estos últimos años dan la impresión de una tartamudez de imágenes, una infracción escandalosa de los ritmos normales de la comprensión (aun cuando ciertos autores ya han habituado a los espectadores a la previsibilidad de su imprevisibilidad).



El mejor cine comienza por el adjetivo y acaso no llega al sustantivo; corre sin puntuaciones de una habitación a otra, como si el mundo fuese una única habitación; narra acontecimientos puramente mentales; transforma el detalle en horizonte; cancela las relaciones falsificadas por la sucesión; se deja guiar por aquella extraña atracción
entre las imágenes que se convierten en raíles del lenguaje; crea tiempos nuevos, el futuro presente, el pasado futuro, el presente anterior (basta recordar la presentación godardiana de un mismo acontecimiento. Subdividido en más momentos, dándonos devolviéndonos el mismo instante de vida hasta dilatarlo: un poco como la proyección de un tiro de pistola, que dura un instante en la realidad y sobre la pantalla puede durar decenas y decenas de minutos); extiende las relaciones entre sonido e imagen de la misma manera que en una poesía se extiende la relación entre sentido y metro en
el enjambement (la prolongación de una frase sobre otra secuencia y su adelanto, que nos da una percepción diferencial, forzándonos a frecuentar un hecho narrativo,
como se frecuenta un hecho pictórico o sonoro, a explorar una dimensión de la vida que en la vida normal es imposible: nuestros ojos no frenan ni aceleran, no ven el macrocosmos ni el microcosmos, etc.). Hasta el punto que el empleo de esta nueva frecuencia de percepción en una narración fílmica se vuelca sobre sí misma, indicando su propio sentido. ¿Por qué se frena la mirada?, por ejemplo. La respuesta está comprendida en la pregunta. Como señalaba el doctor Faustus cuando indicaba en la
inflación erótica la ausencia de amor en nuestra época, así el frenar es nuestra interrogación sobre la aceleración de nuestra vida social y sobre la misma necesidad no
dominada. ¿Y por qué el suspense, el artificio emocional? Acaso precisamente porque vivimos en una época de respuestas emotivas ya desarticuladas, con la atención desgastada por los estímulos artificiales inesenciales, y, por consiguiente, el retraso narrativo nos interroga sobre nuestra manera de ser en el tiempo (la prisa como
función del tiempo-igual-dinero, de la servidumbre incontrolada al ciclo producción-consumo, sobre cuya necesidad ya se interrogaba Stuart Mili). ¿Y por qué la continua reclamación al tema de la memoria? ¿Por qué vivimos en un mundo que no quiere recordar, que está sujeto a una economía de la memoria que le destruye el
pasado y le hace naufragar en el futuro? Nosotros no interrogamos al cine para que nos dé respuestas cognoscitivas, sino que nos dejamos interrogar por el cine, vamos al cine por esto, para llenarnos de preguntas y llevarlas fuera, como público co-creador del sentido de la obra, en la cotidianidad reconquistada a la mirada. Las tramas son nómadas, las anécdotas incorrectas, los argumentos casuales, los acontecimientos nadan en la cróni ca. Y, sin embargo, de vez en vez seleccionamos este o aquel material porque suponemos que sirva mejor que otro para la concentración de la atención, y después lo destruimos, lo consumimos, lo matamos sustrayéndolo a su ya fundido significado. En el fondo, así como la muerte de los individuos es la victoria de la especie, y la muerte de las formas literarias es la victoria de la literatura, así la muerte del viejo cine es la victoria del cine. Pero la pregunta, una vez más, hoy, es precisamente ésta: cine, ¿dónde está tu victoria?

Extraído de “Della Volpe Galvano - Problemas Del Nuevo Cine”