sábado, 13 de febrero de 2010

Per una critica cinegrafica - Gianni Toti

Estratto da AA.VV., PER UNA NUOVA CRITICA. I CONVEGNI PESARESI
1965-1966, Marsilio editori, Venezia 1989, pp. 51-53, 59-60



Non esiste purtroppo, già raccolto e ordinato, un corpus di
materiali critici, una collezione finita e omogenea di testi
scelti in base a un principio limitativo di pertinenza, rassomiglianza
e differenza quale «simulacro» di oggetti
osservati e studiati per offrire la possibilità di un discorso
dall’interno della critica cinematografica. Né ho potuto
costituirmelo io stesso con facilità, come dovrebbe essere
possibile, invece, mediante una pubblicazione periodica
(quanto ci manca, per esempio, «Lo spettatore cinematografico
», una rivista che si è chiusa, forse proprio perché
era così utile, avendo per scopo quello di raccogliere i testi
di critica più significativi, si badi, non i migliori seguendo
tutta la gamma delle ideologie e degli interessi). Ma forse
è meglio che questo «corpus» – che sarebbe necessario per
una ricerca sui «sistemi di significazione» della critica
attuale non sia stato raccolto perché in fondo una tavola
rotonda sulla critica cinematografica, piuttosto che ridursi
a una esercitazione di un metalinguaggio su un altro metalinguaggio
sarà bene che discuta su certi vettori convergenti
di azione per il «Cinema Nuovo» cui è intitolata questa
Prima Mostra Internazionale delle Opere Prime; «prime
» evidentemente, non soltanto in senso cronologico o
anagrafico. Perché – è inutile spenderci forse altri discorsi o accumulare altri dati e cifre (li conosciamo tutti all’ingrosso)
– la situazione del cinema (critica compresa, quindi)
è più che problematica, e siamo ancora fermi alla ripetizione
degli allarmi che non riescono ad allarmare come
dovrebbero – segno che la segnaletica d’allarme è mal
impostata, forse. La situazione del cinema è grave, e parlo
di tutto il cinema, non solo di quello italiano – nonostante
le contemporanee e malinconiche discussioni in Parlamento.
A settant’anni da quella serata storica al Salon Indien
du Grand Café al numero 14 del Boulevard de Capucines
quando per la somma di un franco uno strano nuovissimo
pubblico scoprì «l’immagine animata», mentre il cinema
italiano continua ad allarmarsi, e quindi a non allarmarsi
veramente, nel più vicino e similare mercato cinematografico,
in Francia, Monsieur Paul Reverdy, Ispettore delle
Finanze, a una precisa domanda del suo Ministro sulla
possibilità di sopravvivenza del cinema nazionale (dopo la
constatata defezione di tre quarti degli spettatori) ha risposto
che «con quarantasei milioni di abitanti aventi un tenore
di vita elevato, e di conseguenza des loisirs variée (cioè
una varia disponibilità di utilizzazione del tempo libero),
il mercato interno francese è, per l’industria cinematografica,
un mercato ristretto. In queste condizioni non ci si
può nascondere che «il mantenimento di una produzione
nazionale costituisce una forma di lusso». Nella misura in
cui questa produzione perde la sua redditività naturale, il
problema che si pone alla collettività è di sapere se essa
accetta o no, sia per la via fiscale (alleggerimenti) sia per la
via del bilancio (sovvenzioni dirette o indirette), di sostituire
i capitali privati mancanti. Questa scelta è finanziaria
e culturale, dunque politica...». E la frase «il mantenimento
di una produzione nazionale costituisce una forma di
lusso» era sottolineata nel testo del rapporto dall’autore stesso: il che dimostra come uno Stato capitalistico moderno
possa a sangue freddo prospettarsi la disparizione di
uno dei rami più importanti del suo sistema di produzione
culturale. Il cinema, evidentemente, non viene ancora
considerato dalle sfere ufficiali di questo nostro vicino Paese
(le suocere e le nuore intendano) neppure al livello dell’editoria
(che, almeno per quanto riguarda la scuola, ha
una sua giustificazione permanente e ineliminabile): se
non dà profitto, non si giustifica. Il cinema, d’altra parte, è
veramente in crisi e il fenomeno, – anche soltanto a stare
alle dichiarazioni dei fratelli Siritzky padroni di un circuito
importantissimo che viene aggiornato come alternativa
agli altri loisirs moderni (campagne di cortesia, gare di
comfort, combinazione di divertimenti, ecc.), e che quindi
reagisce – è irreversibile. Gli spettatori diminuiscono e
l’aumento degli incassi è illusorio perché fondato su comparazioni
tra elementi non omogenei (le entrate del passato
e quelle attuali comparate come se i sistemi di accertamento
e controllo ufficiale fossero gli stessi fra il 1938 e il
1956). Il cinema è ormai un affare mondiale, e solo l’accertamento
e la concentrazione oligopolistica sembra consentire
per ora margini di crescenza quantitativa (nuovi mercati,
Paesi sottosviluppati cinematograficamente ecc.).
Come il teatro si è avviato alla sua fase boulevardière, così
sta avvenendo per il cinema, aggredito concorrenzialmente
dagli altrimezzi di impiego del tempo libero, così che da
una parte abbiamo l’estremo del cinema da boulevard, e
dall’altro estremo il cinema intellettualistico, il cinema
parallelo, con – al centro – il cinema della volgarità per bassi
appetiti di massa e per il nuovo mercato giovanile. Il
cinema e il pubblico vanno in maschera, «giocano a
nascondarella», come ha detto Alain Resnais: «ci sono tipi
di pubblico e tipi di film che non si incontreranno mai, e
proprio quando il pubblico si dimostra non più un consumatore
generico, ma sceglie i suoi prodotti (anche questa è
una delle cause di crisi), perché non si è ancora trovato il
modo di fornire la gente degli elementi d’informazione
indispensabili, cioè quelli rispondenti alla realtà: la pubblicità
tende ormai al suo controfine: fa credere al pubblico
che va a vedere un prodotto diverso da quello che si
proietta. E la critica...». Puntini puntini. Riempiamo questi
puntini puntini, se possiamo. La critica non ha ancora scelto
nella stragrande maggioranza la soluzione che offre alla
crisi: cinema di massa cioè risoluto appoggio alla cultura di
massa «perché solo dal pubblico del cinema di massa si
potrà selezionare il pubblico sufficiente e necessario per
creare la base culturale del nuovo cinema» (come diceva
Gramsci per la letteratura, parlando del suo rapporto con
quella d’appendice); oppure cinema diversificati per pubblici
differenziati; oppure cinema di massa e cinéma d’élite (con
conseguente autocensura economica che si aggiungerebbe
a quella politica e a quella culturale, quella cioè del diseguale
sviluppo delle conoscenze linguistiche cinematografiche)
... Eppure è importante che i critici cinematografici
scelgano, che si rendano conto della crisi per esempio,
in tutte le sue implicazioni socio-ideologiche. Per esempio,
sempre in Francia, dove le cose vanno peggio che da noi e
la crisi ci precede di qualche passo, il Ministro degli affari
culturali e il Centro Nazionale della Cinematografia Francese
hanno fatto realizzare alle Società di Economia e di
Matematica Applicata una inchiesta in mezzo al pubblico
sulla situazione e le prospettive della frequenza al cinema e si è scoperto che aumentano i mezzi per uccidere il tempo, ma
diminuisce il tempo da ammazzare. In altre parole, l’insufficienza
del tempo «per vivere» insieme al fatto che il cinema
non esercita più il quasi monopolio delle distrazioni
popolari, non è più quella specie di abitudine fisio-psicologica
che era diventata, la droga di massa (non è stata mai
solamente questo, beninteso), sono altri elementi della crisi
del cinema, però non riguardano più soltanto il cinema,
ma la stessa vita culturale e psicologica della nazione. In
sostanza, il pubblico oggi si è fatto del cinema un’immagine
che non lo stimola più come prima, e il cinema conserva
un’immagine del pubblico che è superata dalle nuove
tendenze di consumo dell’esistenza quale prodotto totale,
mercificazione, reificazione ed estraniazione totalizzante.
La critica, nel mezzo, dovrebbe riuscire a migliorare le due
immagini o avvicinarle, metterle a fuoco; ma finora non ci
è riuscita, anzi...

(…) Ma il cinema oggi risponde ancora a una concezione
macroscopica e ingenuamente romanzesca del divenire
sociale. Per questo i suoi «generi» si riducono al solo genere
romanzesco ottocentesco, e non si è andati al di là di
quel passo – che pure la critica segnalò sporadicamente
fondamentale – consistente nella scoperta della microscopia
deimovimenti esterni, del primo piano come nucleo della
figurazione di un nuovo linguaggio da applicare ai
movimenti interiori, ai meccanismi della coscienza, all’interiorizzazione
dello spettacolo o alla trasformazione in
spettacolo della vita interiore dell’uomo. Non sappiamo
ancora quando sfuggiremo a questa specie di legge poetica
che sembra inclusa nella regola del successo commerciale,
che può essere decretato soltanto da decine di milioni
di persone ai più diversi livelli di cultura e di sensibilità
(il successo del cinema è paragonabile al successo di
un’opera che dev’essere fruita attraverso le epoche, da
diverse umanità, come per mezzo di viaggi nel tempo), ma
è certo che siamo ancora nella fase della medicina emotiva
visuale distribuita in dosi da cavallo a una umanità che
aveva bisogno di un rimedio d’urgenza contro l’eccessiva
strumentalizzazione della ragione, e ne prendeva in dosi
di un’ora e mezzo di inibizione e di ipnosi ininterrotte. In
un’epoca di pianificazioni generali, di tipificazione di
mentalità, l’antidoto culturale è stato così grossolanamente
poetico, ha seguito le regole della volgarizzazione e della
standardizzazione emotiva, delle nevrosi collettive. La
critica ha reagito al meccanismo e ai suoi automatismi
come ha potuto, ma il suo metalinguaggio è rimasto invischiato
nelle stesse remore del linguaggio, mentre doveva
cominciare dal rinnovamento dei suoi stessi strumenti di
analisi cinematografica, cominciare dai cinegrammi come
segni linguistici, dalla semiologia, dallo studio delle strutture
linguistiche del cinema. Noi stessi dovremmo cominciare,
o ricominciare di qui. La antropologia strutturale ci
ha dimostrato che tutto è sistema di segni e di significati
secondi. Anche questo Festival, anche questa «Prima
Mostra Internazionale del Nuovo Cinema» è un sistema di
segni. Il titolo per esempio che, nella sua denotazione
apparentemente semplice come quella di Mostra Internazionale
del Nuovo Cinema sottintende una connotazione
di tendenza culturale. Non si tratta di cinema nuovo in
senso temporale, e le denominazioni, i messaggi pubblicitari,
gli inviti, le iniziative collaterali, le tavole rotonde, i personaggi invitati, l’ospitalità stessa, i gesti e i modi, gli
oggetti, i film stessi alla fine sono tutti segni, riti, protocolli.
Questa Mostra, per esempio, significa una certa ambizione
e una certa fiducia. Crede nel «nuovo» anche soltanto
perché è «nuovo», perché è «primo» e pretende
rischiosamente a una «verifica» dei «fermenti originali e
della volontà di rinnovamento nei contenuti e nel linguaggio
». La Mostra comunica e significa, insomma.
Comunica un’iniziativa, ci informa di lavori compiuti e da
compiere. Significa che il cinema si fa «nuovo»? O che
deve farsi «nuovo»? Se qui si verificano i «fermenti del
rinnovamento linguistico» vuol dire, per esempio, che
questi fermenti sono già stati riscontrati? Oppure ne identificheremo
qui soltanto qualcuno e la verifica verrà
dopo? Ma se questa Mostra si farà ogni anno, il cinema
che qui vedremo sarà «nuovo» ogni anno nel senso polemico
e programmatico evidentemente implicito nella
ragione del suo titolo? È, questo, possibile?

No hay comentarios:

Publicar un comentario