Scoperta delle Americhe? Quale scoperta? Conquista, semmai, cinica e sanguinosa, di territori pacificamente abitati. A scoprire i conquistatori, semmai, furono gli indigeni di quei territori, quelli che (come indica l’etimologia della parola) erano “nati lì”, i legittimi proprietari. E scoprirono questi vascelli e i loro bianchi navigatori con stupore e meraviglia, contentezza e curiosità, abbigliandosi al meglio per riceverli, allestendo festini e cerimonie. Ben presto sterminati: anche subito, anche lì sulle loro variopinte e ventose e festanti barchette. Per non parlare del dopo. E per non parlare dell’oggi. Ma perché non parlarne, invece?
Tutto questo lo sappiamo? Certo. Ce lo hanno raccontato genitori democratici o insegnanti di buona volontà, e anche qualche film, ormai. Ma cosa cambia, se gli olocausti continuano in tutto il mondo, cinici e sanguinosi? Cosa cambia, se con disinvoltura riusciamo a pronunciare l’impronunciabile espressione guerra umanitaria? Cosa cambia, se poi noi colonizzatori ci lasciamo colonizzare tutti, quanto e più di prima, dai colonizzatori di allora, che ci abbagliano con le loro perline colorate e i loro specchietti (uno fra tutti quello della fine delle ideologie, la più forte e illusoria delle ideologie del nostro tempo?).
Da molti anni Gianni Toti esplora, poeticamente e filosoficamente, il nostro tempo. Forse unico, fra gli autori video internazionali, a creare un discorso sul mondo fatto di immagini potentemente articolate, fino ai limiti estremi delle possibilità dei linguaggi elettronici (e, quindi, fino ai limiti estremi del noto, del già pensato, dell’ovvio, inteso sia come luogo comune dominante che come luogo comune confortevolmente - confortevilmente, direbbe Toti!- alternativo). Non documentari, quindi; non opere classicamente narrative; non saggi sociologici, didascalici, dimostrativi. Ma pensieri formati da e per immagini e suoni, costruzioni da guardare - capire - rielaborare (lavorare) per leggere in modo diverso, necessariamente diverso, il mondo.
Nei VideoPoemi degli anni Ottanta erano state le utopie del secolo gli oggetti d’amore e di interrogazione: Majakovskji e Lilj Brik, Velimir Chlàbnikov, Dziga Vertov, Ejsenstein.... La poesia e il cinema come arti di pensiero nuovo, come sguardo complesso sul presente, come rielaborazione delle gigantesche opere del passato, e come nuovo sogno dell’opera d’arte totale: letteratura, musica, teatro e danza, cinema “riletti” e fusi e ricreati nei nuovi linguaggi del video. Poi , dopo i fatti del 1989, la riflessione su un pianeta avviato a una cementificazione urbana e di pensiero: un pianeta tutto uguale, schiacciato sotto il tallone di ferro del mercato, percorso da miliardi di uomini, donne e bambini ridotti a zero (Planetopolis, 1993), in un tempo mangiato e ossessivo, in cui la dolcezza del vivere è affidata a vecchie, struggenti musiche, a brandelli di memoria, a ricordi e barlumi di riscatto. Gran parte di Planetopolis è stata girata in America Latina: si vedono, in metamorfosi di forme e colori, le orribili discariche abitate da spettri in cerca di sopravvivenza; i bambini di strada con le loro sinfonie di vecchi barattoli; i mendicanti; i cartelloni che pubblicizzano le palestre, la CocaCola, oppure Dio, in un delirio indifferenziato di fedi sacre e profane, di chiese e di centri commerciali. Giubileo docet...
Là comincia (anzi prosegue: Gianni Toti ha vissuto a lungo, nella sua lunga vita, in America Centrale e America Latina) un nuovo viaggio, reale e per immagini, nella nuestra America, come si diceva una volta. E Toti (che ha conosciuto Fidel Castro e stretto amicizia con Che Guevara e Salvador Allende) vede ora ingigantirsi l’orrore delle metropoli peruviane e colombiane e brasiliane, ripercorre la storia che ha dato origine a quegli orrori, ripensa la sconfitta degli ideali e delle pratiche che, a un certo punto, sembravano indicare un riscatto per l’intero continente. E lo fa da poeta, anzi da “poetronico” ; e da profondo conoscitore della storia e delle storie latinoamericane, dell’arte, della cultura, del mito.
L’idea, sostenuta produttivamente dal CICV (Centre de Recherche Pierre Schaeffer, Montbliard-Belfort, Francia) è quella di una trilogia, a partire dall’America Latina (dalla Conquista alla Deconquista a venire), sullo sterminio planetario di interi popoli nella cosiddetta era moderna -ancora preistorica, però- . E sulle idee, i sogni non più sognabili, le vitali disperazioni, i pessimismi di un pensiero che deve ri-formarsi, ri-vedere il passato, ricreare le immagini del presente in modo nuovo, aperto alla complessità, al bisogno di verità non retoriche, o forse a quella “semplicit? che è difficile a farsi” con cui Bertolt Brecht designava un comunismo (cosmunismo, come lo chiama Toti) immaginato, mai morto perché mai nato.
Tupac Amauta, quindi, primo canto della trilogia: ispirato a Tupac Amaru, re inca trucidato nel 1572 dai conquistadores; e a Tupac Amaru II, che (scrive Toti) “nove anni prima della Rivoluzione Francese avventò i suoi indios quechua contro ‘la Conquista’ che continuava ( e tuttora continua), aprendo il passo alla Indipendenza subcontinentale e alla prospettiva della Deconquista...” Grande affresco in movimento, Tupac Amauta ricrea - anche grazie alla postproduzione digitale visionaria, orchestrata con il montautore Patrick Zanoli- gli atroci sistemi di supplizio cui intere popolazioni furono sottoposte dai colonizzatori e la figura mitica di Tupac Amauta, divenuta simbolo di resistenza e riscatto: fino a Josè Carlos Mariategui ( leader politico peruviano, morto nel 1930, uno dei più lucidi pensatori dell’America Latina), fino alle immagini del Subcomandante Marcos, fino ai nomi dei militanti uccisi - proprio mentre il video veniva concluso- nell’ambasciata giapponese a Lima.
E con le armonie antiche e potenti dei Chimuchines, archeomusicologi di Santiago del Cile; e con i poemi e le poesie e le canzoni di secoli, anni, giorni, minuti, respiri di rivolta. Le immagini e i suoni incalzano, si sovrappongono, ruotano, svelano i propri dispositivi di linguaggio, accostano come in impreviste assonanze ( o dissonanze, o metafore) le antiche simbologie incas, le incisioni, spezzoni di film, teatri della memoria, astrazioni assolute - che sono, allo stesso tempo, le astrazioni necessarie del pensiero e quelle create dalle odierne macchine per elaborare immagini. Simili alle onde sonore, simili alle rappresentazioni scientifiche. Simili ai primi, ma allora artigianali, tentativi dei pittori-cineasti degli inizi del Novecento.
“Primo canto” della trilogia: così è indicato Tupac Amauta. Ma a distanza di un anno, nel 1999, il secondo canto si trasforma in “secondo grido”. Il canto, la canzone, la parola musicata e musicante lasciano il posto a un urlo, spariscono a favore dell’asserzione, fin dal titolo, di un’angoscia. Gramsciategui ou les poesimistes-Secondo grido. Toti vi lavora, sempre con Patrick Zanoli (ma non dimentichiamo Marie-Laure Florin, e la preziosa collaborazione di Elisa Zurlo alle due opere) e sempre al CICV, quando l’Europa, quella dalle “magnifiche sorti e progressive”, si è lanciata nella vergognosa impresa della cosiddetta guerra umanitaria in Kosovo, scaricando bombe intelligenti su popolazioni inermi e prestandosi coscientemente a un piano di politica internazionale in cui gli USA si proclamano padroni dell’ordine mondiale. Con un’arroganza cui accondiscendono scodinzolando i governanti del nostro continente, in barba alle Costituzioni nazionali e alle appartenenze ideali (questioni da robivecchi....). La conquista continua, così come i genocidi, gli olocausti, lo sterminio - Africa, ex Jugoslavia, Cecenia...ma anche il mare Adriatico coi suoi carichi di carne da macellare o da affondare, i vergognosi lager per immigrati, lo stretto di Dover con i suoi container che diventano camere della morte...- e la guerra col suo colore livido entra nel secondo canto della trilogia, lo trasforma in grido, “grido crudele e disperato”.
Gramsciategui - il titolo mescola nel nome congiunto “il pessimismo eroico” di due teorici rivoluzionari del nostro secolo e con forti affinit?, Antonio Gramsci e Josè Carlos Mariategui (nel video “dialogano” in due spezzoni cinematografici accostati)- abbandona gli affreschi in movimento, le dolci musiche, le canzoni di lotta, e fa il vuoto: il vuoto dell’urlo silenzioso e spaventoso di Munch, di un grido inascoltato. Il vuoto: la vacuità degli sforzi degli “uomini di buona volontà”, la patetica inerzia di qualunque discorso “progressista”. C’è, sì, la dolce canzone che evoca il tempo delle ciliegie, Le temps des cerises, canzone d’amore e di primavera che divenne l’inno della Comune di Parigi: ma ? deformata, resa lontana e irraggiungibile... E c’è, ancora, l’ evocazione di un’ utopia possibile e odierna, quella dei minatori di Tower nel Galles che, a dispetto della (falsa) scienza degli economisti stanno autogestendo con profitto la propria miniera data per morta (Jean-Michel Carré ha recentemente realizzato un video su questa esperienza, Charbon ardents, in cui si narra anche della prima bandiera rossa della storia del movimento operaio, ottenuta bagnando un drappo bianco nel sangue di un vitello, dopo un eccidio di minatori. Oggi sulla bandiera rossa di Tower sta scritto “Knowledge is power”). Isole cui però -sembra dire Toti- non c’è da approdare, ne’ da aggrapparsi. Il vuoto, l’urlo silenzioso, le immagini astratte, le invenzioni acusmatiche di Monique Jean e Luigi Ceccarelli, sono lo spazio di un pensiero radicalmente pessimista, che ha perduto la speranza (“è solo a favore dei disperati che ci è data la speranza”, scriveva Ernest Marcuse negli anni Sessanta. “E’ solo a favore dei disperati che abbiamo il dovere della disperazione”, sembra dirci Toti in Gramsciategui , alle soglie del Duemila).
Nessun conforto, nessun alibi per la coscienza di tutti noi, affondatori di fratelli che cercano asilo, bombardatori di umanit? senza colpa, giocatori spregiudicati in borsa, navigatori sulle onde della new economy come i nostri antenati lo furono sulle rotte delle Indie: anzi, forse peggio.
Lo spazio di questo pensiero è da costruire. E Toti, sempre così pronto a riempire lo schermo, a saturarlo di suoni, immagini, parole, musiche, film, danze, teatri, pitture, disegni, qui si affida alle volute rarefatte dell’immagine digitale intessuta sapientemente nell’arco di mesi, giorno dopo giorno, per fare spazio e per costruire la necessità di un silenzio che non può più essere abitato dal conforto di facili (o difficili) speranze. Poesimismo, la parola coniata da Toti per indicare nel titolo i due pensatori, unisce del resto in un unico termine la poesia (poiesis, che ha come radice greca il fare) e il pessimismo, che sembra designare la negazione del fare, o comunque una visione negativa. Parola anche ossimora dunque, che indica forse la necessità di un fare lucido e disperato, o di una negazione produttiva. E di una poesia mai riconciliata, mai consolatoria, mai serva del cinismo dei “buoni sentimenti”. Del resto, il terzo canto o grido della trilogia, che avrebbe dovuto occuparsi del mito inca del Pachacuti, la riscossa e la deconquista (“l’anticatastrofe liberatoria”, scrive Toti), si è trasformato, nell’annuncio contenuto nei titoli di coda di Gramsciategui, ne “Il tronfio trionfo della morte”...La speranza di riscossa rovesciata nel suo opposto, la certezza della disfatta. O forse no?
Ma ecco Gramsci, proprio lui, il poesimista morto di galera fascista, autore della celebre formula “pessimismo della ragione, ottimismo della volontà”: eccolo nello spezzone di un vecchio film girato a Mosca nel 1921. Toti ne scontorna la figurina già piccola e scura, infagottata in un cappotto troppo grande. Lo isola, lo fa procedere nel vuoto, ne ripete i passi, rende insistente, tenace, attuale il suo incedere nello spazio deserto. Poi il video torna all’indietro, lo rileggiamo rapidamente a ritroso, come in una sintesi capovolta e quindi con senso e con sensi diversi.
E lui, Gramsci, quando il video finisce è ancora lì, ostinato, e cammina ancora.
jueves, 28 de enero de 2010
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