lunes, 20 de diciembre de 2010
DOSSIER "IMMAGINE & PUBBLICO (LA VIDEOARTE HA TRENT'ANNI) (1990)
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DOSSIER "IMMAGINE & PUBBLICO (LA VIDEOARTE HA TRENT'ANNI)" (PDF)
INCLUYE:
-Un'arte ormai adulta di Gianni Toti
-Alla ricerca di mercato e liberta di Marco Maria Gazzano
-Una lunga rivoluzione culturale di Dany Bloch
-La televisione astratta di Jean-Paul Fargier
-Una nuova arte totale di Marta Sturken
-Quali opere video nei Musei? di Lola Bonora
-Senza fine e senza inizio: la simultaneita di Toti di Rosanna Albertini
-Primo video spaziale italiano di Dario Eaola
-10 anni di arte elettronica di Vittorio Fagone e Matilde Pugnetti
-L'esperienza dei Videodiamanti
-Appuntamento di riflessione di Vittorio Boarini
-L'«archeologia» del video di Valentina Valentini
-Dalla sceneggiatura al video di Carlo Infante
-Videobibliografia a cura di Marco Maria Gazzano
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Jean-Paul Fargier,
Marco Maria Gazzano,
Rosanna Albertini
martes, 26 de octubre de 2010
Spazi creativi: La casa totiana (La riapertura al pubblico della casa di Gianni Toti)
Di Silvia Moretti
Quando lo si avvicinava, nelle pause dei festivals, Gianni Toti aveva l’irrefrenabile abitudine di travolgere ogni suo interlocutore in un universo di cui in un baleno scompigliava baricentri di senso e coordinate culturali. In questo spaesamento, però, un punto cardinale rimaneva sempre in vista, il centro nevralgico e più intimo di quella conflagrazione: Via dei giornalisti, 25. Gianni Toti ripeteva più e più volte ai giovani che lo circondavano il suo indirizzo di casa – facendolo seguire tutto d’un fiato dal numero civico. Viadeigiornalistiventicinque – diceva.
Generoso conversatore, il poetronico apriva il suo universo creativo facendo scattare il chiavistello della sua prima opera in fieri. La sua casa. Un agglomerato di stanze tappezzate di scrittura. Sulle pareti, sul soffitto, in bagno e in anticamera. Libri e non solo libri. Manifesti, locandine, foto, oggetti, disegni appesi come in una grande bacheca a segnare gli appuntamenti di una vita. La casa come il suo pianeta da sfogliare, il planetoti che ha ritratto Sandra Lischi nel video Planetoti notes (1994).
Il 15 maggio 2009, a due anni dalla scomparsa del poetronico, La casa totiana ha riaperto le porte. Ha spostato semplicemente il campanello d’ingresso a un nuovo indirizzo, con numero civico annesso. Via Ofanto, 18. Roma. Pia Abelli, la moglie, ha ricostruito la biblioteca, la videoteca e l’archivio di Toti insieme a compagni, studiosi, artisti italiani e stranieri che hanno fondato l’omonima associazione culturale La casa totiana.
L’operazione di trasloco si è rivelata una felice metafora. Un trasporto, cioè, letteralmente. Un trasporto che porta con sé nuova forma e nuovo significato: uno spostamento che è insieme riscoperta di ciò che è e apertura a ciò che potrà essere. I locali di via Ofanto sono spazi, ampli e attrezzati, il cui perimetro è segnato dagli oltre venticinquemila volumi posseduti e sfogliati da quell’artista onnivoro. Una stanzina – l’archivio – è scolpita dalle agende infittite dalla sua poesia quotidiana, dai suoi progetti letterari e cinematografici, editi e inediti, dalla corrispondenza che ha intrecciato con il suo secolo. Oltre agli scaffali, le pareti sono punteggiate da alcuni dipinti della prima moglie, la pittrice näif Marinka Dallos (altre sue opere sono raccolte nel vicino istituto primario “Lante della Rovere”); dagli oggetti raccolti negli innumerevoli viaggi nei quattro angoli dell’universo e dalle fotografie che impressionano gli scatti della sua vita sempre in movimento. Toti e Zavattini, Toti e Che Guevera, Toti e Còrtazar. Toti e... In questi puntini di sospensione, puntini che tanto spesso lasciava in calce alle sue poesie e videopoesie, sta la natura della casa totiana. Luogo che sì, si offre all’attenzione degli studiosi totiani letterati o video-laureati, ma che nasce per farsi attraversare creativamente, cavalcando nuovi linguaggi.
Una prima risposta a questa sperimentazione sono stati i “ProTotipi”, tre letture creative del modo e del mondo poetico totiano realizzate da alcuni allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (corso “Cinema e realtà”, prof. Daniele Segre).
Insieme alle ultime VideoPoemOpere totiane, i “ProTotipi” saranno proiettati il 21 novembre 2009 all’interno del Romapoesia Film Festival.
Il sito della Casa Totiana è: www.lacasatotiana.it
L’indirizzo e.mail: segreteria@lacasatotiana.it Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
La Casa Totiana può essere visitata previo appuntamento da concordare.
Publicado en la Revista Predella, no. 26 (2009)
ARTICOLO IN PDF
Quando lo si avvicinava, nelle pause dei festivals, Gianni Toti aveva l’irrefrenabile abitudine di travolgere ogni suo interlocutore in un universo di cui in un baleno scompigliava baricentri di senso e coordinate culturali. In questo spaesamento, però, un punto cardinale rimaneva sempre in vista, il centro nevralgico e più intimo di quella conflagrazione: Via dei giornalisti, 25. Gianni Toti ripeteva più e più volte ai giovani che lo circondavano il suo indirizzo di casa – facendolo seguire tutto d’un fiato dal numero civico. Viadeigiornalistiventicinque – diceva.
Generoso conversatore, il poetronico apriva il suo universo creativo facendo scattare il chiavistello della sua prima opera in fieri. La sua casa. Un agglomerato di stanze tappezzate di scrittura. Sulle pareti, sul soffitto, in bagno e in anticamera. Libri e non solo libri. Manifesti, locandine, foto, oggetti, disegni appesi come in una grande bacheca a segnare gli appuntamenti di una vita. La casa come il suo pianeta da sfogliare, il planetoti che ha ritratto Sandra Lischi nel video Planetoti notes (1994).
Il 15 maggio 2009, a due anni dalla scomparsa del poetronico, La casa totiana ha riaperto le porte. Ha spostato semplicemente il campanello d’ingresso a un nuovo indirizzo, con numero civico annesso. Via Ofanto, 18. Roma. Pia Abelli, la moglie, ha ricostruito la biblioteca, la videoteca e l’archivio di Toti insieme a compagni, studiosi, artisti italiani e stranieri che hanno fondato l’omonima associazione culturale La casa totiana.
L’operazione di trasloco si è rivelata una felice metafora. Un trasporto, cioè, letteralmente. Un trasporto che porta con sé nuova forma e nuovo significato: uno spostamento che è insieme riscoperta di ciò che è e apertura a ciò che potrà essere. I locali di via Ofanto sono spazi, ampli e attrezzati, il cui perimetro è segnato dagli oltre venticinquemila volumi posseduti e sfogliati da quell’artista onnivoro. Una stanzina – l’archivio – è scolpita dalle agende infittite dalla sua poesia quotidiana, dai suoi progetti letterari e cinematografici, editi e inediti, dalla corrispondenza che ha intrecciato con il suo secolo. Oltre agli scaffali, le pareti sono punteggiate da alcuni dipinti della prima moglie, la pittrice näif Marinka Dallos (altre sue opere sono raccolte nel vicino istituto primario “Lante della Rovere”); dagli oggetti raccolti negli innumerevoli viaggi nei quattro angoli dell’universo e dalle fotografie che impressionano gli scatti della sua vita sempre in movimento. Toti e Zavattini, Toti e Che Guevera, Toti e Còrtazar. Toti e... In questi puntini di sospensione, puntini che tanto spesso lasciava in calce alle sue poesie e videopoesie, sta la natura della casa totiana. Luogo che sì, si offre all’attenzione degli studiosi totiani letterati o video-laureati, ma che nasce per farsi attraversare creativamente, cavalcando nuovi linguaggi.
Una prima risposta a questa sperimentazione sono stati i “ProTotipi”, tre letture creative del modo e del mondo poetico totiano realizzate da alcuni allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (corso “Cinema e realtà”, prof. Daniele Segre).
Insieme alle ultime VideoPoemOpere totiane, i “ProTotipi” saranno proiettati il 21 novembre 2009 all’interno del Romapoesia Film Festival.
Il sito della Casa Totiana è: www.lacasatotiana.it
L’indirizzo e.mail: segreteria@lacasatotiana.it Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
La Casa Totiana può essere visitata previo appuntamento da concordare.
Publicado en la Revista Predella, no. 26 (2009)
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Incatenata alla pellicola Le pre-visioni su carta della Trilogia Majakovskiana di Gianni Toti
Di Silvia Moretti
Nel descrivere un video la penna del critico confessa non di rado di annegare nel suo inchiostro. Spesso la scrittura fatica a restituire la complessità degli effetti elettronici, le piroette di sguardi che da essi germogliano, gli eccessi di immagine e di immaginazione che si stratificano l’uno sull’altro. «Nessun video è descrivibile, tanto meno a parole» ha affermato Marco Maria Gazzano anni fa - «e tanto meno quelli, irriducibili, di Toti»1.
La singolarità delle videopere di Gianni Toti, irriducibili sulla carta, consiste però nel fatto che esse possono essere aperte attraverso chiavi di carta. Toti è stato infatti scrittore di tutte le scritture sempre alla ricerca di nuove vie per liberarsi dalle trappole del linguaggio. Il suo approdo alla poetronica, alla poesia espressa con le unità espressive elettroniche, sul finire degli anni ‘70, non si è risolto in una lacerazione della carta. Insieme agli appunti che freneticamente annotava per stare al passo con la sua fantasia (carte che, conservate nell’archivio della Casa Totiana a Roma, si prestano ora ad essere studiate), è la sua produzione a stampa, le decine di volumi di poesie degli anni Sessanta, i due romanzi del decennio successivo, i mille e più articoli sparsi su rivista a funzionare rispetto ai suoi video da veri avantesti.
Tra le numerose videopere totiane, quelle realizzate negli anni ‘80 presso il Settore Ricerca e Sperimentazione Programmi della Rai sono per eccellenza figlie della pagina scritta. La Trilogia Majakovskiana, seconda opera in video realizzata nel 1983, rappresenta una caso singolare. La sua storia ha inizio e fine sulla carta. Non comincia, se non apparentemente, con VALERIAscopia o dell’amMAGLIattrice, la videodanza in tutù e chromakey che ne costituisce il primo atto. E non si conclude con l’ultimo, Cuor di tèlema, il libero riadattamento cinematografico di un soggetto di Vladim Majakovskij. Questi due movimenti incorniciano l’esperimento che è valso a fondare l’identità dell’intera trilogia: Incatenata alla pellicola.
In essa Toti rivisita letteralmente 2 minuti e 40 secondi dell’omonimo film Sakavannaia filmoi (Turkin, 1918) sceneggiato e interpretato da Majakovskij insieme alla compagna Lili Brik. È lei a consegnare nelle mani del futuro poetronico quei pochi frammenti, scampati ad un incendio, che raccolgono i momenti culminanti della storia di un amore tra realtà e finzione: l’uscita della ballerina dal manifesto cinematografico che la ritrae, i suoi primi passi nella stanza del pittore che di lei è innamorato, la sua nostalgia dello schermo. Lili-ballerina esce, Toti invece entra nella pellicola. Per escatenarla – precisa il sottotitolo del video – attraverso i linguaggi fluidi del nastro magnetico.
Il poetronico esplora i fotogrammi angolo per angolo. Produce nuove immagini da una stessa immagine, duplicandola con effetti speculari e caledoiscopici o isolandone dettagli. Con il rallenty, il suo sguardo traduce il tempo in spazio e lo spazio nella filigrana luminosa e pulsante dei pixel.
La voce recitante di Toti s’intreccia alle immagini in un concerto polifonico. «Il sogno di carta sul nastro del sognificato si fa carne» pronuncia ad un certo punto, e prosegue: «Lili è di carta e sangue, è pellicola, è nastro, è fatta della materia seconda dei nostri sogni esauriti».
Prima che sul nastro, per oltre un decennio Gianni Toti continua a far vivere Incatenata alla pellicola sulla carta. La prima riscrittura è custodita nel n.15 (gennaio-marzo 1971, p. 111) della rivista Carte segrete di cui il poeta era codirettore insieme a Domenico Javarone:
«Sakovannaia filmoi: imprigionata, o “incatenata dal film”, dal cinema per estensione: è il secondo film di Vladimir Majakovskij, quello di cui restano gli scarti di montaggio. Lisstcka [Lili Brik] lo ha raccontato a Gianni Toti, Litciko ha fatto forza a se stessa, ha ricordato il ricordo del ricordo… Volodia era il pittore, estraeva dallo schermo, un lenzuolone bianco veleggiante nella stanza senza pareti, la donna cinematografica, l’immagine amata dentro la pellicola, il simulacro di nulla» (fig. 1).
In questo articolo, intitolato Le demoiselle et le voyou – Incatenata alla pellicola, Toti rievoca la sera del febbraio 1970 quando Lili lo condusse in un piccolo cinema di Mosca per vedere un film di Majakovskij Le demoiselle et le voyou. Porgendogli i pochi fotogrammi superstiti, l’amica gli raccontò la storia del secondo film, Incatenata alla pellicola: «chi ha visto, chi vedrà questi “resti” che non sono “silenziosi”?» si interroga Toti. In Francia la sorella della Brik, Elsa Kagan Triolet Aragon, aveva da poco organizzato una mostra dedicata a Majakovkij. Toti le scrive il 10 marzo 1970 affinché i materiali possano essere conosciuti anche in Italia. Il progetto sfuma. Lo ripone sulla carta perché non cada nell’oblio:
«… noi ci riproviamo qui […], raccontando e pubblicando foto e manifesti e ritagli di montaggio. Nella speranza che i lettori – o qualche superlettore ricco con loro – trovino altre risorse organizzative ed economiche per portare i film di Majakovskij a “pubblici” nuovi.»
Manifesti, fotografie, lettere di Lili: gran parte del materiale iconografico dell’articolo verrà prelevato da Toti per la parte introduttiva del suo Cuor di tèlema. Nel 1978 il piano di riscrittura aveva assunto ambizioni audiovisive da tre anni:
«Sono passati anni da quando il Consiglio di Amministrazione della RAI-TV, alla vigilia della “riforma”, approvò il progetto che Gianni Toti aveva presentato a “gli sperimentali” (…) per un film (televisivo) sui film brik-majakovskijani. Era stato persino approntato un preventivo per la ripresa di una lunga intervista televisiva con Lili Brik, precauzione diciamo e amorosamente cinica: sarebbe scomparsa un giorno, il più tardi possibile, l’immortale mortale donna del poeta!» (fig. 2).
Nell’articolo Addio agli addii per Lili Brik del numero 41 di Carte Segrete (gen-marzo 1978), Toti non può che piangere, attraverso la poesia, la morte dell’attrice percependo «l’impossibilità ormai totale di restituirle quella vita dell’immagine»:
Dovevamo noi toti filmarti ancora – ah il progèttile!
irrilanciato “scatenata dal film” reincatenata invece
da “lontano visione” al RAIlenti che svive nel suo sempre
palinsestuale raschiando gli occhi della specie.
Data l’inerzia della Rai, l’unico spazio garantito per farla rivivere sembra rimanere la pagina letteraria. Su quella del Padrone assoluto, romanzo sperimentale del 1977 ai limiti dell’afasia, vita e morte diventano i poli di una dialettica che nel capitolo 36 è sviscerata proprio attraverso la donna incatenata al cinigma e il suo pittore: «lui ha filmato il racconto di un film […] e qui lo si legge perché il film non era nonflam e brusiò in qualche archivio di polvere, e solo in queste parole scritte si rifilma su uno schermo così interno che si schermimisce» (Il padrone assoluto, Feltrineli, Milano 1977, p.57). Il finale del brano, che suggerisce alcune delle immagini verbali su cui maturerà la voce recitante nel video, non è più quello dell’originale Incatenata alla pellicola:
«La giravolta della gonna cuore, il balzo del pittor cinetico: e tutte due dentro lo schermo-pagina-quadro-scultura. L’ha seguita: lei era uscita per trascinarlo nel suo mondo o lui ne l’aveva fatta uscire per inseguirvela poi, rotta l’incantazio, finita l’eternità?»
Nella riscrittura di Toti si nascondono in realtà le riscritture fattuali e intenzionali di Majakovskij (figg. 3-4).
Dopo dieci anni dalla Trilogia, esce un libricino curato dall’autore, La leggenda di Cinelandia (Fahrenheit, Roma 1994): è l’esito di un percorso nato e ritrovato sulla carta dove i 2’40’’ si risolvono negli spazi visivi immobili dei fotogrammi stampati. Quelle pagine raccolgono lo scenario di Incatenata alla pellicola così come ricordato dalla Brik. E ripercorrono la sua variante mai realizzata: Cinelandia è la terra del cinema alla ricerca della quale il pittore, rimasto solo, decideva di partire. Majakovskij avrebbe voluto scrivere un secondo film descrivendo la vita dell’artista sopraggiunto nel mondo al di là dello schermo. Nel 1926, invece, ritorna sul primo progetto e firma Cuor di cinema modificandone il finale. Il pittore accendeva la pipa. Gettato in aria, il fiammifero ricadeva sulla coda della pellicola a cui la donna era stata di nuovo incatenata. E la bruciava. Realtà e finzione, pittore e ballerina, erano destinati a non incontrarsi più. Sotto lo stesso segno di un fuoco che sarebbe stato di lì a poco reale.
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1. M. Gazzano, Gianni Toti. Il tempo del senso, in id., Il cinema dalla fotografia al computer, Quattroventi, Urbino, 1999.
Publicado en la Revista Predella, no. 26 (2009)
ARTICOLO IN PDF
Nel descrivere un video la penna del critico confessa non di rado di annegare nel suo inchiostro. Spesso la scrittura fatica a restituire la complessità degli effetti elettronici, le piroette di sguardi che da essi germogliano, gli eccessi di immagine e di immaginazione che si stratificano l’uno sull’altro. «Nessun video è descrivibile, tanto meno a parole» ha affermato Marco Maria Gazzano anni fa - «e tanto meno quelli, irriducibili, di Toti»1.
La singolarità delle videopere di Gianni Toti, irriducibili sulla carta, consiste però nel fatto che esse possono essere aperte attraverso chiavi di carta. Toti è stato infatti scrittore di tutte le scritture sempre alla ricerca di nuove vie per liberarsi dalle trappole del linguaggio. Il suo approdo alla poetronica, alla poesia espressa con le unità espressive elettroniche, sul finire degli anni ‘70, non si è risolto in una lacerazione della carta. Insieme agli appunti che freneticamente annotava per stare al passo con la sua fantasia (carte che, conservate nell’archivio della Casa Totiana a Roma, si prestano ora ad essere studiate), è la sua produzione a stampa, le decine di volumi di poesie degli anni Sessanta, i due romanzi del decennio successivo, i mille e più articoli sparsi su rivista a funzionare rispetto ai suoi video da veri avantesti.
Tra le numerose videopere totiane, quelle realizzate negli anni ‘80 presso il Settore Ricerca e Sperimentazione Programmi della Rai sono per eccellenza figlie della pagina scritta. La Trilogia Majakovskiana, seconda opera in video realizzata nel 1983, rappresenta una caso singolare. La sua storia ha inizio e fine sulla carta. Non comincia, se non apparentemente, con VALERIAscopia o dell’amMAGLIattrice, la videodanza in tutù e chromakey che ne costituisce il primo atto. E non si conclude con l’ultimo, Cuor di tèlema, il libero riadattamento cinematografico di un soggetto di Vladim Majakovskij. Questi due movimenti incorniciano l’esperimento che è valso a fondare l’identità dell’intera trilogia: Incatenata alla pellicola.
In essa Toti rivisita letteralmente 2 minuti e 40 secondi dell’omonimo film Sakavannaia filmoi (Turkin, 1918) sceneggiato e interpretato da Majakovskij insieme alla compagna Lili Brik. È lei a consegnare nelle mani del futuro poetronico quei pochi frammenti, scampati ad un incendio, che raccolgono i momenti culminanti della storia di un amore tra realtà e finzione: l’uscita della ballerina dal manifesto cinematografico che la ritrae, i suoi primi passi nella stanza del pittore che di lei è innamorato, la sua nostalgia dello schermo. Lili-ballerina esce, Toti invece entra nella pellicola. Per escatenarla – precisa il sottotitolo del video – attraverso i linguaggi fluidi del nastro magnetico.
Il poetronico esplora i fotogrammi angolo per angolo. Produce nuove immagini da una stessa immagine, duplicandola con effetti speculari e caledoiscopici o isolandone dettagli. Con il rallenty, il suo sguardo traduce il tempo in spazio e lo spazio nella filigrana luminosa e pulsante dei pixel.
La voce recitante di Toti s’intreccia alle immagini in un concerto polifonico. «Il sogno di carta sul nastro del sognificato si fa carne» pronuncia ad un certo punto, e prosegue: «Lili è di carta e sangue, è pellicola, è nastro, è fatta della materia seconda dei nostri sogni esauriti».
Prima che sul nastro, per oltre un decennio Gianni Toti continua a far vivere Incatenata alla pellicola sulla carta. La prima riscrittura è custodita nel n.15 (gennaio-marzo 1971, p. 111) della rivista Carte segrete di cui il poeta era codirettore insieme a Domenico Javarone:
«Sakovannaia filmoi: imprigionata, o “incatenata dal film”, dal cinema per estensione: è il secondo film di Vladimir Majakovskij, quello di cui restano gli scarti di montaggio. Lisstcka [Lili Brik] lo ha raccontato a Gianni Toti, Litciko ha fatto forza a se stessa, ha ricordato il ricordo del ricordo… Volodia era il pittore, estraeva dallo schermo, un lenzuolone bianco veleggiante nella stanza senza pareti, la donna cinematografica, l’immagine amata dentro la pellicola, il simulacro di nulla» (fig. 1).
In questo articolo, intitolato Le demoiselle et le voyou – Incatenata alla pellicola, Toti rievoca la sera del febbraio 1970 quando Lili lo condusse in un piccolo cinema di Mosca per vedere un film di Majakovskij Le demoiselle et le voyou. Porgendogli i pochi fotogrammi superstiti, l’amica gli raccontò la storia del secondo film, Incatenata alla pellicola: «chi ha visto, chi vedrà questi “resti” che non sono “silenziosi”?» si interroga Toti. In Francia la sorella della Brik, Elsa Kagan Triolet Aragon, aveva da poco organizzato una mostra dedicata a Majakovkij. Toti le scrive il 10 marzo 1970 affinché i materiali possano essere conosciuti anche in Italia. Il progetto sfuma. Lo ripone sulla carta perché non cada nell’oblio:
«… noi ci riproviamo qui […], raccontando e pubblicando foto e manifesti e ritagli di montaggio. Nella speranza che i lettori – o qualche superlettore ricco con loro – trovino altre risorse organizzative ed economiche per portare i film di Majakovskij a “pubblici” nuovi.»
Manifesti, fotografie, lettere di Lili: gran parte del materiale iconografico dell’articolo verrà prelevato da Toti per la parte introduttiva del suo Cuor di tèlema. Nel 1978 il piano di riscrittura aveva assunto ambizioni audiovisive da tre anni:
«Sono passati anni da quando il Consiglio di Amministrazione della RAI-TV, alla vigilia della “riforma”, approvò il progetto che Gianni Toti aveva presentato a “gli sperimentali” (…) per un film (televisivo) sui film brik-majakovskijani. Era stato persino approntato un preventivo per la ripresa di una lunga intervista televisiva con Lili Brik, precauzione diciamo e amorosamente cinica: sarebbe scomparsa un giorno, il più tardi possibile, l’immortale mortale donna del poeta!» (fig. 2).
Nell’articolo Addio agli addii per Lili Brik del numero 41 di Carte Segrete (gen-marzo 1978), Toti non può che piangere, attraverso la poesia, la morte dell’attrice percependo «l’impossibilità ormai totale di restituirle quella vita dell’immagine»:
Dovevamo noi toti filmarti ancora – ah il progèttile!
irrilanciato “scatenata dal film” reincatenata invece
da “lontano visione” al RAIlenti che svive nel suo sempre
palinsestuale raschiando gli occhi della specie.
Data l’inerzia della Rai, l’unico spazio garantito per farla rivivere sembra rimanere la pagina letteraria. Su quella del Padrone assoluto, romanzo sperimentale del 1977 ai limiti dell’afasia, vita e morte diventano i poli di una dialettica che nel capitolo 36 è sviscerata proprio attraverso la donna incatenata al cinigma e il suo pittore: «lui ha filmato il racconto di un film […] e qui lo si legge perché il film non era nonflam e brusiò in qualche archivio di polvere, e solo in queste parole scritte si rifilma su uno schermo così interno che si schermimisce» (Il padrone assoluto, Feltrineli, Milano 1977, p.57). Il finale del brano, che suggerisce alcune delle immagini verbali su cui maturerà la voce recitante nel video, non è più quello dell’originale Incatenata alla pellicola:
«La giravolta della gonna cuore, il balzo del pittor cinetico: e tutte due dentro lo schermo-pagina-quadro-scultura. L’ha seguita: lei era uscita per trascinarlo nel suo mondo o lui ne l’aveva fatta uscire per inseguirvela poi, rotta l’incantazio, finita l’eternità?»
Nella riscrittura di Toti si nascondono in realtà le riscritture fattuali e intenzionali di Majakovskij (figg. 3-4).
Dopo dieci anni dalla Trilogia, esce un libricino curato dall’autore, La leggenda di Cinelandia (Fahrenheit, Roma 1994): è l’esito di un percorso nato e ritrovato sulla carta dove i 2’40’’ si risolvono negli spazi visivi immobili dei fotogrammi stampati. Quelle pagine raccolgono lo scenario di Incatenata alla pellicola così come ricordato dalla Brik. E ripercorrono la sua variante mai realizzata: Cinelandia è la terra del cinema alla ricerca della quale il pittore, rimasto solo, decideva di partire. Majakovskij avrebbe voluto scrivere un secondo film descrivendo la vita dell’artista sopraggiunto nel mondo al di là dello schermo. Nel 1926, invece, ritorna sul primo progetto e firma Cuor di cinema modificandone il finale. Il pittore accendeva la pipa. Gettato in aria, il fiammifero ricadeva sulla coda della pellicola a cui la donna era stata di nuovo incatenata. E la bruciava. Realtà e finzione, pittore e ballerina, erano destinati a non incontrarsi più. Sotto lo stesso segno di un fuoco che sarebbe stato di lì a poco reale.
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1. M. Gazzano, Gianni Toti. Il tempo del senso, in id., Il cinema dalla fotografia al computer, Quattroventi, Urbino, 1999.
Publicado en la Revista Predella, no. 26 (2009)
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LA LEGGENDA DI CINELANDIA,
Silvia Moretti
lunes, 25 de octubre de 2010
jueves, 30 de septiembre de 2010
Vecla
Finalmente, le mie vecchie parole possono lasciarsi crescere i capelli bianchi. Parole, dico, per dire frasi, periodare, articolare e congiungere, ritmare e concludere lasciando il discorso vagolare più in là. Adesso la mia scrittura, già anziana, si lascia andare alla ripetizione, al ricordo di sé, alla nostalgia delle prime scoperte, di quella vaga musicalità che è del ritmico battere delle dita e dei tasti, per un discorso che ha i suoi tempi, le sue pause, persino i suoi vuoti stracolmi di virtualità inespresse ma esprimibili proprio nella loro inesprimibilità. Così mi lascio anch'io disaccentare, tralasciar il ritmo dei miei piedi, non solo quelli letterari: quelli delle mie gambe artritiche e malferme.
Non mi dirò più nulla che ion non sappia, non conoscerò ma ri-conoscerò quel "tempo" inimitato perché troppo imitabile, dissi un giorno sottoponendomi a spietata critica.
Adesso che so, è tempo di morire. Così scrisse.
Sì. Così lasciò scritto il mio buon amico Fraenkel, in preda a profonda stanchezza scrittoria. Prima di scrivere il suo capolavoro: Nobel ese oblige che, appunto, mai scrisse ma resta il suo capolavoro: "Un romanzo coi capelli bianchi" - non è un bel sottotitolo? Non potrei mettermi a scriverlo io, per amore del mio amico Fraenkel, con le sue parole falsamente invecchiantesi.
Quel buon vecchio vino verbale!
Publicación con motivo del aniversario del nacimiento de Toti el 24 de Junio.
La casa Totiana annuncia:
Oggi 24 Giugno 2010, nel giorno della sua nascita, La Casa Totiana ricorda Gianni Toti con una pubblicazione nata appositamente per il web.
Descargar la Publicación
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martes, 21 de septiembre de 2010
martes, 23 de marzo de 2010
Definido por su autor como un videopoemopera electrónico, Planetopolis de Gianni Toti es – con sus dos horas y seis minutos de extensión – un video-limite. Los espectadores que presenciaron su primera exhibición pública en Buenos Aires, no asistieron a otra cosa que a la ceremonia de fundación mítica de una ciudad-planeta virtual, construida por las nuevas disponibilidades de la imagen digital; es aceptando ese desafío que fueron iniciados a la condición de planetopolitanos.
A partir de la Aldea Global hecha posible por la videosfera, que en solo un par de décadas fue de la utopía de Macluhan a un clise periodístico, Toti ha propuesto la constitución de un nuevo espacio simbólico, la fundación de una ciudad-planeta regulada por las leyes en transformación perpetua de su poesía.
Gianni Toti supo definirse alguna vez como un poemosaurio. Si en los 60’ solía ser calificado como un retorico en sus intervenciones teóricas dentro del marco de los celebres festivales cinematográficos de Pesaro (solía espetarse el adjetivo desde una condescendencia no exenta de cierta simpatía –al fin y al cabo – desde las posiciones de los promotores de un marxismo duro, formalizado y con visos de episteme y método científico), demostrando su condición extraterritorial, ya en los posmodernos 90’ Toti se ha asumido como un anacronismo viviente, nutrido y sostenido a poesía pura con una obra de vitalidad sorprendente. A contrapelo de la levedad que a menudo impera en una orientación hacia el puro look narcisistico definición de su autor, la que lo postula como poesimista. Es porque no cree residir en el mejor de los lugares posibles que se propone – como quería el viejo Holderlin – habitar poéticamente el mundo, fundarlo desde el video.
Planetopolis, lejos de demarcar fronteras rigidas, se establece en zonas fronterizas. Entre la obra y el manifiesto, trasciende la devaluación que desde los 70’ pudo verificarse en la categoría de obra a la par del ascenso del arte conceptual, donde la atención se centraba en el programa, en el manifiesto: el arte como idea, más que como objeto. Entre las múltiples ambiciones del video de Toti está la de trascender esa oposición obra/concepto, generando un video-manifiesto, dando un paso hacia un territorio post-conceptual. Y lo hace procesando la iconografía y los proyectos de las vanguardias históricas, más que el underground de los 50’ a la fecha. Explora linajes para su ciudad-planeta que se remontan fundamentalmente a las experiencias soviéticas de los 20’, pero que llegan hasta los proyectos onírico-arquitectónicos de un Boullée en el siglo XVIII.
En ese sentido, la obra también se localiza en un punto de confluencia entre la plástica, la música, la poesía y distintas vertientes y momentos del video de creación, elaborando un video-nudo con hilos heterogéneos, cuya textura a menudo desconcierta. Lo de videopoemopera habla de ese bricolaje en el punto de partida, que lejos de obligar a una hibridez garantiza la originalidad del resultado.
Pero hay otra frontera; la que se localiza entre el video y el arte digital. Con su cámara viajera Toti registro parte de lo visible en su transcurso. No obstante, otro tanto proviene de lo que a falta de mejor nombre hoy se denomina arte digital. Espacios cósmicos, tuneles, construcciones, esferas vertiginosas, figuras liquidas, extienden un magma virtual donde la imagen parece ubicarse a menudo al final de una gestación visible. Toti obtiene asi una epica de la imagen video.
Como experiencia perceptiva e intelectual de alta exigencia, Planetopolis convoca una demografía ideal e insólitamente compleja. El video de Toti se habla en 15 idiomas, incluido el artificial Planetopoliense. Participan de su decurso imágenes fílmicas de Lang, Eisenstein, Marker, Pennebaker, Lanoli, entre otras, y videograficas de Ulises Nadruz, Vladimir Carvalho, Bernard Bloch y Sandra Kogut. La banda de sonido alterna a Shostakovich, Honegger, Prokofiev, Haendel, Mahler, Pachebel o Elgar con Mercedes Sosa, Stephane Grapelli o Atahualpa Yupanqui.
Para reforzar su condición poemasaurica debe señalarse sin rodeos que Planetopolis es un video revolucionario. Hay en el una dimensión que puede sorprender en el actual entorno estético: la de la incorporación de la historia. Toti no remite al fin de ninguna historia, sino precisamente a lo contrario: al comienzo de otra. De su Big-Bang electrónico a su declaración digital del estatuto planetopoliense, la obra respira un deseo revolucionario que atañe a la vida entera concebida poéticamente. Habituado a minimalismos varios, el espectador presente puede vacilar ante este maximalismo poético, que avanza en una revolución permanente, giro tras giro, como imagino aquel joven Denis Kaufman que se bautizo a si mismo con el nombre entre ucraniano y ruso de Dziga Vertov. Recuerda que en otros tiempos, su autor volvía una y otra vez a las postulaciones de aquel cine-ojo.
La extensión del video de Toti le convierte, por otra parte, en un ejercicio distante de las aceleraciones y brevedades frecuentes en el medio. Lejos de las velocidades que al parece impone el entorno digital y que obsesionan a teóricos como Paul Virilio, Planetopolis evoluciona tomándose su tiempo. En ese sentido crece su exigencia al espectador, que debe orbitarlo en sus giros parsimoniosos, mientras la palabras se fundan, al igual que las imágenes, en su transcurso. Es un ejemplo acabado, en ese sentido, de una ciber-resistencia que sostiene la crítica en plena explosión de la bomba numérica.
Uno de los problemas característicos de la innovación formal en el video de creación reside en su fundamental plasticidad, que al tiempo de interrogar las fronteras de la imagen y promover nuevas formas, lo hace extremadamente funcional, rápidamente apto para la asimilación y apropiación como materia prima de diversos productos del mercado audiovisual, muy especialmente el videoclip o el spot publicitario. Pero Toti plantea una estrategia de resistencia al marketing fundada en la instalación de palabras que nombran las imágenes, que interponen una diferencia, que interpelan a un espectador sacudiendo su comodidad. En su variedad de movimientos, el video de Toti provoca una emoción intensa que se arraiga en su fundamental honestidad. Ajeno a modas, a tendencias del momento, esta desmesurada obra demuestra su sed de sentido, lo que conecta a la épica con una ética de la imagen bajo sus nuevas formas. En tiempos en que parece ingenuo y definitivamente demodé preguntar si el video puede transformar el mundo, Toti propone cambiar el interrogante ¿Puede el video fundar uno? La respuesta es sí, y su nombre es Planetopolis.
Planetopolis, de Gianni Toti (De la videosfera a la ciudad global) - Eduardo A. Russo
(En el Libro La revolucion del Video - Jorge La Ferla)
A partir de la Aldea Global hecha posible por la videosfera, que en solo un par de décadas fue de la utopía de Macluhan a un clise periodístico, Toti ha propuesto la constitución de un nuevo espacio simbólico, la fundación de una ciudad-planeta regulada por las leyes en transformación perpetua de su poesía.
Gianni Toti supo definirse alguna vez como un poemosaurio. Si en los 60’ solía ser calificado como un retorico en sus intervenciones teóricas dentro del marco de los celebres festivales cinematográficos de Pesaro (solía espetarse el adjetivo desde una condescendencia no exenta de cierta simpatía –al fin y al cabo – desde las posiciones de los promotores de un marxismo duro, formalizado y con visos de episteme y método científico), demostrando su condición extraterritorial, ya en los posmodernos 90’ Toti se ha asumido como un anacronismo viviente, nutrido y sostenido a poesía pura con una obra de vitalidad sorprendente. A contrapelo de la levedad que a menudo impera en una orientación hacia el puro look narcisistico definición de su autor, la que lo postula como poesimista. Es porque no cree residir en el mejor de los lugares posibles que se propone – como quería el viejo Holderlin – habitar poéticamente el mundo, fundarlo desde el video.
Planetopolis, lejos de demarcar fronteras rigidas, se establece en zonas fronterizas. Entre la obra y el manifiesto, trasciende la devaluación que desde los 70’ pudo verificarse en la categoría de obra a la par del ascenso del arte conceptual, donde la atención se centraba en el programa, en el manifiesto: el arte como idea, más que como objeto. Entre las múltiples ambiciones del video de Toti está la de trascender esa oposición obra/concepto, generando un video-manifiesto, dando un paso hacia un territorio post-conceptual. Y lo hace procesando la iconografía y los proyectos de las vanguardias históricas, más que el underground de los 50’ a la fecha. Explora linajes para su ciudad-planeta que se remontan fundamentalmente a las experiencias soviéticas de los 20’, pero que llegan hasta los proyectos onírico-arquitectónicos de un Boullée en el siglo XVIII.
En ese sentido, la obra también se localiza en un punto de confluencia entre la plástica, la música, la poesía y distintas vertientes y momentos del video de creación, elaborando un video-nudo con hilos heterogéneos, cuya textura a menudo desconcierta. Lo de videopoemopera habla de ese bricolaje en el punto de partida, que lejos de obligar a una hibridez garantiza la originalidad del resultado.
Pero hay otra frontera; la que se localiza entre el video y el arte digital. Con su cámara viajera Toti registro parte de lo visible en su transcurso. No obstante, otro tanto proviene de lo que a falta de mejor nombre hoy se denomina arte digital. Espacios cósmicos, tuneles, construcciones, esferas vertiginosas, figuras liquidas, extienden un magma virtual donde la imagen parece ubicarse a menudo al final de una gestación visible. Toti obtiene asi una epica de la imagen video.
Como experiencia perceptiva e intelectual de alta exigencia, Planetopolis convoca una demografía ideal e insólitamente compleja. El video de Toti se habla en 15 idiomas, incluido el artificial Planetopoliense. Participan de su decurso imágenes fílmicas de Lang, Eisenstein, Marker, Pennebaker, Lanoli, entre otras, y videograficas de Ulises Nadruz, Vladimir Carvalho, Bernard Bloch y Sandra Kogut. La banda de sonido alterna a Shostakovich, Honegger, Prokofiev, Haendel, Mahler, Pachebel o Elgar con Mercedes Sosa, Stephane Grapelli o Atahualpa Yupanqui.
Para reforzar su condición poemasaurica debe señalarse sin rodeos que Planetopolis es un video revolucionario. Hay en el una dimensión que puede sorprender en el actual entorno estético: la de la incorporación de la historia. Toti no remite al fin de ninguna historia, sino precisamente a lo contrario: al comienzo de otra. De su Big-Bang electrónico a su declaración digital del estatuto planetopoliense, la obra respira un deseo revolucionario que atañe a la vida entera concebida poéticamente. Habituado a minimalismos varios, el espectador presente puede vacilar ante este maximalismo poético, que avanza en una revolución permanente, giro tras giro, como imagino aquel joven Denis Kaufman que se bautizo a si mismo con el nombre entre ucraniano y ruso de Dziga Vertov. Recuerda que en otros tiempos, su autor volvía una y otra vez a las postulaciones de aquel cine-ojo.
La extensión del video de Toti le convierte, por otra parte, en un ejercicio distante de las aceleraciones y brevedades frecuentes en el medio. Lejos de las velocidades que al parece impone el entorno digital y que obsesionan a teóricos como Paul Virilio, Planetopolis evoluciona tomándose su tiempo. En ese sentido crece su exigencia al espectador, que debe orbitarlo en sus giros parsimoniosos, mientras la palabras se fundan, al igual que las imágenes, en su transcurso. Es un ejemplo acabado, en ese sentido, de una ciber-resistencia que sostiene la crítica en plena explosión de la bomba numérica.
Uno de los problemas característicos de la innovación formal en el video de creación reside en su fundamental plasticidad, que al tiempo de interrogar las fronteras de la imagen y promover nuevas formas, lo hace extremadamente funcional, rápidamente apto para la asimilación y apropiación como materia prima de diversos productos del mercado audiovisual, muy especialmente el videoclip o el spot publicitario. Pero Toti plantea una estrategia de resistencia al marketing fundada en la instalación de palabras que nombran las imágenes, que interponen una diferencia, que interpelan a un espectador sacudiendo su comodidad. En su variedad de movimientos, el video de Toti provoca una emoción intensa que se arraiga en su fundamental honestidad. Ajeno a modas, a tendencias del momento, esta desmesurada obra demuestra su sed de sentido, lo que conecta a la épica con una ética de la imagen bajo sus nuevas formas. En tiempos en que parece ingenuo y definitivamente demodé preguntar si el video puede transformar el mundo, Toti propone cambiar el interrogante ¿Puede el video fundar uno? La respuesta es sí, y su nombre es Planetopolis.
Planetopolis, de Gianni Toti (De la videosfera a la ciudad global) - Eduardo A. Russo
(En el Libro La revolucion del Video - Jorge La Ferla)
viernes, 26 de febrero de 2010
Subtus
Vorrei amarla, Suada, mi sembra che potrei, se soltanto mi sorridesse, ma l’ho troppo aspettato, questo sorriso, per non essermi accorto che proprio non sorride o, anzi, che sorride a rate, periódicamente, un po’ dal lato sinistro delle labbra e un po’ a destra, oppure con il labbro superiore prima, e quello inferiore dopo, e soltanto con questa o quella parte delle labbra, tutto il resto del viso e del corpo non sorride neppure in parte; non sa sottoridere, insomma. O non ne ha nessun motivo, povera Suada.
Gliel’ho detto, stupidamente, e da allora non sorride affatto, assolutamente, o tutta quanta, dalla radice dei capelli alle piegoline degli occhi, sinistriere e destriere, con tutti i muscoli facciali, e i denti che le sussultano allora attorno alla sottolingua. Eccessivamente, sorride allora, e non convince neppure se stessa.
Dimentica, Suada, dimentica ciò che ti ho detto io e, soprattutto, ciò che ti hanno detto tutti; non ci pensare più, a sorridere, e se ti viene da ridere, da surridere, superridere, superridi pure. Non è obbligatorio sottoridere, io non te l’ho ordinato, io non voglio che tu sottoviva. Perché sottovivi, tu?
sábado, 13 de febrero de 2010
Per una critica cinegrafica - Gianni Toti
Estratto da AA.VV., PER UNA NUOVA CRITICA. I CONVEGNI PESARESI
1965-1966, Marsilio editori, Venezia 1989, pp. 51-53, 59-60
Non esiste purtroppo, già raccolto e ordinato, un corpus di
materiali critici, una collezione finita e omogenea di testi
scelti in base a un principio limitativo di pertinenza, rassomiglianza
e differenza quale «simulacro» di oggetti
osservati e studiati per offrire la possibilità di un discorso
dall’interno della critica cinematografica. Né ho potuto
costituirmelo io stesso con facilità, come dovrebbe essere
possibile, invece, mediante una pubblicazione periodica
(quanto ci manca, per esempio, «Lo spettatore cinematografico
», una rivista che si è chiusa, forse proprio perché
era così utile, avendo per scopo quello di raccogliere i testi
di critica più significativi, si badi, non i migliori seguendo
tutta la gamma delle ideologie e degli interessi). Ma forse
è meglio che questo «corpus» – che sarebbe necessario per
una ricerca sui «sistemi di significazione» della critica
attuale non sia stato raccolto perché in fondo una tavola
rotonda sulla critica cinematografica, piuttosto che ridursi
a una esercitazione di un metalinguaggio su un altro metalinguaggio
sarà bene che discuta su certi vettori convergenti
di azione per il «Cinema Nuovo» cui è intitolata questa
Prima Mostra Internazionale delle Opere Prime; «prime
» evidentemente, non soltanto in senso cronologico o
anagrafico. Perché – è inutile spenderci forse altri discorsi o accumulare altri dati e cifre (li conosciamo tutti all’ingrosso)
– la situazione del cinema (critica compresa, quindi)
è più che problematica, e siamo ancora fermi alla ripetizione
degli allarmi che non riescono ad allarmare come
dovrebbero – segno che la segnaletica d’allarme è mal
impostata, forse. La situazione del cinema è grave, e parlo
di tutto il cinema, non solo di quello italiano – nonostante
le contemporanee e malinconiche discussioni in Parlamento.
A settant’anni da quella serata storica al Salon Indien
du Grand Café al numero 14 del Boulevard de Capucines
quando per la somma di un franco uno strano nuovissimo
pubblico scoprì «l’immagine animata», mentre il cinema
italiano continua ad allarmarsi, e quindi a non allarmarsi
veramente, nel più vicino e similare mercato cinematografico,
in Francia, Monsieur Paul Reverdy, Ispettore delle
Finanze, a una precisa domanda del suo Ministro sulla
possibilità di sopravvivenza del cinema nazionale (dopo la
constatata defezione di tre quarti degli spettatori) ha risposto
che «con quarantasei milioni di abitanti aventi un tenore
di vita elevato, e di conseguenza des loisirs variée (cioè
una varia disponibilità di utilizzazione del tempo libero),
il mercato interno francese è, per l’industria cinematografica,
un mercato ristretto. In queste condizioni non ci si
può nascondere che «il mantenimento di una produzione
nazionale costituisce una forma di lusso». Nella misura in
cui questa produzione perde la sua redditività naturale, il
problema che si pone alla collettività è di sapere se essa
accetta o no, sia per la via fiscale (alleggerimenti) sia per la
via del bilancio (sovvenzioni dirette o indirette), di sostituire
i capitali privati mancanti. Questa scelta è finanziaria
e culturale, dunque politica...». E la frase «il mantenimento
di una produzione nazionale costituisce una forma di
lusso» era sottolineata nel testo del rapporto dall’autore stesso: il che dimostra come uno Stato capitalistico moderno
possa a sangue freddo prospettarsi la disparizione di
uno dei rami più importanti del suo sistema di produzione
culturale. Il cinema, evidentemente, non viene ancora
considerato dalle sfere ufficiali di questo nostro vicino Paese
(le suocere e le nuore intendano) neppure al livello dell’editoria
(che, almeno per quanto riguarda la scuola, ha
una sua giustificazione permanente e ineliminabile): se
non dà profitto, non si giustifica. Il cinema, d’altra parte, è
veramente in crisi e il fenomeno, – anche soltanto a stare
alle dichiarazioni dei fratelli Siritzky padroni di un circuito
importantissimo che viene aggiornato come alternativa
agli altri loisirs moderni (campagne di cortesia, gare di
comfort, combinazione di divertimenti, ecc.), e che quindi
reagisce – è irreversibile. Gli spettatori diminuiscono e
l’aumento degli incassi è illusorio perché fondato su comparazioni
tra elementi non omogenei (le entrate del passato
e quelle attuali comparate come se i sistemi di accertamento
e controllo ufficiale fossero gli stessi fra il 1938 e il
1956). Il cinema è ormai un affare mondiale, e solo l’accertamento
e la concentrazione oligopolistica sembra consentire
per ora margini di crescenza quantitativa (nuovi mercati,
Paesi sottosviluppati cinematograficamente ecc.).
Come il teatro si è avviato alla sua fase boulevardière, così
sta avvenendo per il cinema, aggredito concorrenzialmente
dagli altrimezzi di impiego del tempo libero, così che da
una parte abbiamo l’estremo del cinema da boulevard, e
dall’altro estremo il cinema intellettualistico, il cinema
parallelo, con – al centro – il cinema della volgarità per bassi
appetiti di massa e per il nuovo mercato giovanile. Il
cinema e il pubblico vanno in maschera, «giocano a
nascondarella», come ha detto Alain Resnais: «ci sono tipi
di pubblico e tipi di film che non si incontreranno mai, e
proprio quando il pubblico si dimostra non più un consumatore
generico, ma sceglie i suoi prodotti (anche questa è
una delle cause di crisi), perché non si è ancora trovato il
modo di fornire la gente degli elementi d’informazione
indispensabili, cioè quelli rispondenti alla realtà: la pubblicità
tende ormai al suo controfine: fa credere al pubblico
che va a vedere un prodotto diverso da quello che si
proietta. E la critica...». Puntini puntini. Riempiamo questi
puntini puntini, se possiamo. La critica non ha ancora scelto
nella stragrande maggioranza la soluzione che offre alla
crisi: cinema di massa cioè risoluto appoggio alla cultura di
massa «perché solo dal pubblico del cinema di massa si
potrà selezionare il pubblico sufficiente e necessario per
creare la base culturale del nuovo cinema» (come diceva
Gramsci per la letteratura, parlando del suo rapporto con
quella d’appendice); oppure cinema diversificati per pubblici
differenziati; oppure cinema di massa e cinéma d’élite (con
conseguente autocensura economica che si aggiungerebbe
a quella politica e a quella culturale, quella cioè del diseguale
sviluppo delle conoscenze linguistiche cinematografiche)
... Eppure è importante che i critici cinematografici
scelgano, che si rendano conto della crisi per esempio,
in tutte le sue implicazioni socio-ideologiche. Per esempio,
sempre in Francia, dove le cose vanno peggio che da noi e
la crisi ci precede di qualche passo, il Ministro degli affari
culturali e il Centro Nazionale della Cinematografia Francese
hanno fatto realizzare alle Società di Economia e di
Matematica Applicata una inchiesta in mezzo al pubblico
sulla situazione e le prospettive della frequenza al cinema e si è scoperto che aumentano i mezzi per uccidere il tempo, ma
diminuisce il tempo da ammazzare. In altre parole, l’insufficienza
del tempo «per vivere» insieme al fatto che il cinema
non esercita più il quasi monopolio delle distrazioni
popolari, non è più quella specie di abitudine fisio-psicologica
che era diventata, la droga di massa (non è stata mai
solamente questo, beninteso), sono altri elementi della crisi
del cinema, però non riguardano più soltanto il cinema,
ma la stessa vita culturale e psicologica della nazione. In
sostanza, il pubblico oggi si è fatto del cinema un’immagine
che non lo stimola più come prima, e il cinema conserva
un’immagine del pubblico che è superata dalle nuove
tendenze di consumo dell’esistenza quale prodotto totale,
mercificazione, reificazione ed estraniazione totalizzante.
La critica, nel mezzo, dovrebbe riuscire a migliorare le due
immagini o avvicinarle, metterle a fuoco; ma finora non ci
è riuscita, anzi...
(…) Ma il cinema oggi risponde ancora a una concezione
macroscopica e ingenuamente romanzesca del divenire
sociale. Per questo i suoi «generi» si riducono al solo genere
romanzesco ottocentesco, e non si è andati al di là di
quel passo – che pure la critica segnalò sporadicamente
fondamentale – consistente nella scoperta della microscopia
deimovimenti esterni, del primo piano come nucleo della
figurazione di un nuovo linguaggio da applicare ai
movimenti interiori, ai meccanismi della coscienza, all’interiorizzazione
dello spettacolo o alla trasformazione in
spettacolo della vita interiore dell’uomo. Non sappiamo
ancora quando sfuggiremo a questa specie di legge poetica
che sembra inclusa nella regola del successo commerciale,
che può essere decretato soltanto da decine di milioni
di persone ai più diversi livelli di cultura e di sensibilità
(il successo del cinema è paragonabile al successo di
un’opera che dev’essere fruita attraverso le epoche, da
diverse umanità, come per mezzo di viaggi nel tempo), ma
è certo che siamo ancora nella fase della medicina emotiva
visuale distribuita in dosi da cavallo a una umanità che
aveva bisogno di un rimedio d’urgenza contro l’eccessiva
strumentalizzazione della ragione, e ne prendeva in dosi
di un’ora e mezzo di inibizione e di ipnosi ininterrotte. In
un’epoca di pianificazioni generali, di tipificazione di
mentalità, l’antidoto culturale è stato così grossolanamente
poetico, ha seguito le regole della volgarizzazione e della
standardizzazione emotiva, delle nevrosi collettive. La
critica ha reagito al meccanismo e ai suoi automatismi
come ha potuto, ma il suo metalinguaggio è rimasto invischiato
nelle stesse remore del linguaggio, mentre doveva
cominciare dal rinnovamento dei suoi stessi strumenti di
analisi cinematografica, cominciare dai cinegrammi come
segni linguistici, dalla semiologia, dallo studio delle strutture
linguistiche del cinema. Noi stessi dovremmo cominciare,
o ricominciare di qui. La antropologia strutturale ci
ha dimostrato che tutto è sistema di segni e di significati
secondi. Anche questo Festival, anche questa «Prima
Mostra Internazionale del Nuovo Cinema» è un sistema di
segni. Il titolo per esempio che, nella sua denotazione
apparentemente semplice come quella di Mostra Internazionale
del Nuovo Cinema sottintende una connotazione
di tendenza culturale. Non si tratta di cinema nuovo in
senso temporale, e le denominazioni, i messaggi pubblicitari,
gli inviti, le iniziative collaterali, le tavole rotonde, i personaggi invitati, l’ospitalità stessa, i gesti e i modi, gli
oggetti, i film stessi alla fine sono tutti segni, riti, protocolli.
Questa Mostra, per esempio, significa una certa ambizione
e una certa fiducia. Crede nel «nuovo» anche soltanto
perché è «nuovo», perché è «primo» e pretende
rischiosamente a una «verifica» dei «fermenti originali e
della volontà di rinnovamento nei contenuti e nel linguaggio
». La Mostra comunica e significa, insomma.
Comunica un’iniziativa, ci informa di lavori compiuti e da
compiere. Significa che il cinema si fa «nuovo»? O che
deve farsi «nuovo»? Se qui si verificano i «fermenti del
rinnovamento linguistico» vuol dire, per esempio, che
questi fermenti sono già stati riscontrati? Oppure ne identificheremo
qui soltanto qualcuno e la verifica verrà
dopo? Ma se questa Mostra si farà ogni anno, il cinema
che qui vedremo sarà «nuovo» ogni anno nel senso polemico
e programmatico evidentemente implicito nella
ragione del suo titolo? È, questo, possibile?
1965-1966, Marsilio editori, Venezia 1989, pp. 51-53, 59-60
Non esiste purtroppo, già raccolto e ordinato, un corpus di
materiali critici, una collezione finita e omogenea di testi
scelti in base a un principio limitativo di pertinenza, rassomiglianza
e differenza quale «simulacro» di oggetti
osservati e studiati per offrire la possibilità di un discorso
dall’interno della critica cinematografica. Né ho potuto
costituirmelo io stesso con facilità, come dovrebbe essere
possibile, invece, mediante una pubblicazione periodica
(quanto ci manca, per esempio, «Lo spettatore cinematografico
», una rivista che si è chiusa, forse proprio perché
era così utile, avendo per scopo quello di raccogliere i testi
di critica più significativi, si badi, non i migliori seguendo
tutta la gamma delle ideologie e degli interessi). Ma forse
è meglio che questo «corpus» – che sarebbe necessario per
una ricerca sui «sistemi di significazione» della critica
attuale non sia stato raccolto perché in fondo una tavola
rotonda sulla critica cinematografica, piuttosto che ridursi
a una esercitazione di un metalinguaggio su un altro metalinguaggio
sarà bene che discuta su certi vettori convergenti
di azione per il «Cinema Nuovo» cui è intitolata questa
Prima Mostra Internazionale delle Opere Prime; «prime
» evidentemente, non soltanto in senso cronologico o
anagrafico. Perché – è inutile spenderci forse altri discorsi o accumulare altri dati e cifre (li conosciamo tutti all’ingrosso)
– la situazione del cinema (critica compresa, quindi)
è più che problematica, e siamo ancora fermi alla ripetizione
degli allarmi che non riescono ad allarmare come
dovrebbero – segno che la segnaletica d’allarme è mal
impostata, forse. La situazione del cinema è grave, e parlo
di tutto il cinema, non solo di quello italiano – nonostante
le contemporanee e malinconiche discussioni in Parlamento.
A settant’anni da quella serata storica al Salon Indien
du Grand Café al numero 14 del Boulevard de Capucines
quando per la somma di un franco uno strano nuovissimo
pubblico scoprì «l’immagine animata», mentre il cinema
italiano continua ad allarmarsi, e quindi a non allarmarsi
veramente, nel più vicino e similare mercato cinematografico,
in Francia, Monsieur Paul Reverdy, Ispettore delle
Finanze, a una precisa domanda del suo Ministro sulla
possibilità di sopravvivenza del cinema nazionale (dopo la
constatata defezione di tre quarti degli spettatori) ha risposto
che «con quarantasei milioni di abitanti aventi un tenore
di vita elevato, e di conseguenza des loisirs variée (cioè
una varia disponibilità di utilizzazione del tempo libero),
il mercato interno francese è, per l’industria cinematografica,
un mercato ristretto. In queste condizioni non ci si
può nascondere che «il mantenimento di una produzione
nazionale costituisce una forma di lusso». Nella misura in
cui questa produzione perde la sua redditività naturale, il
problema che si pone alla collettività è di sapere se essa
accetta o no, sia per la via fiscale (alleggerimenti) sia per la
via del bilancio (sovvenzioni dirette o indirette), di sostituire
i capitali privati mancanti. Questa scelta è finanziaria
e culturale, dunque politica...». E la frase «il mantenimento
di una produzione nazionale costituisce una forma di
lusso» era sottolineata nel testo del rapporto dall’autore stesso: il che dimostra come uno Stato capitalistico moderno
possa a sangue freddo prospettarsi la disparizione di
uno dei rami più importanti del suo sistema di produzione
culturale. Il cinema, evidentemente, non viene ancora
considerato dalle sfere ufficiali di questo nostro vicino Paese
(le suocere e le nuore intendano) neppure al livello dell’editoria
(che, almeno per quanto riguarda la scuola, ha
una sua giustificazione permanente e ineliminabile): se
non dà profitto, non si giustifica. Il cinema, d’altra parte, è
veramente in crisi e il fenomeno, – anche soltanto a stare
alle dichiarazioni dei fratelli Siritzky padroni di un circuito
importantissimo che viene aggiornato come alternativa
agli altri loisirs moderni (campagne di cortesia, gare di
comfort, combinazione di divertimenti, ecc.), e che quindi
reagisce – è irreversibile. Gli spettatori diminuiscono e
l’aumento degli incassi è illusorio perché fondato su comparazioni
tra elementi non omogenei (le entrate del passato
e quelle attuali comparate come se i sistemi di accertamento
e controllo ufficiale fossero gli stessi fra il 1938 e il
1956). Il cinema è ormai un affare mondiale, e solo l’accertamento
e la concentrazione oligopolistica sembra consentire
per ora margini di crescenza quantitativa (nuovi mercati,
Paesi sottosviluppati cinematograficamente ecc.).
Come il teatro si è avviato alla sua fase boulevardière, così
sta avvenendo per il cinema, aggredito concorrenzialmente
dagli altrimezzi di impiego del tempo libero, così che da
una parte abbiamo l’estremo del cinema da boulevard, e
dall’altro estremo il cinema intellettualistico, il cinema
parallelo, con – al centro – il cinema della volgarità per bassi
appetiti di massa e per il nuovo mercato giovanile. Il
cinema e il pubblico vanno in maschera, «giocano a
nascondarella», come ha detto Alain Resnais: «ci sono tipi
di pubblico e tipi di film che non si incontreranno mai, e
proprio quando il pubblico si dimostra non più un consumatore
generico, ma sceglie i suoi prodotti (anche questa è
una delle cause di crisi), perché non si è ancora trovato il
modo di fornire la gente degli elementi d’informazione
indispensabili, cioè quelli rispondenti alla realtà: la pubblicità
tende ormai al suo controfine: fa credere al pubblico
che va a vedere un prodotto diverso da quello che si
proietta. E la critica...». Puntini puntini. Riempiamo questi
puntini puntini, se possiamo. La critica non ha ancora scelto
nella stragrande maggioranza la soluzione che offre alla
crisi: cinema di massa cioè risoluto appoggio alla cultura di
massa «perché solo dal pubblico del cinema di massa si
potrà selezionare il pubblico sufficiente e necessario per
creare la base culturale del nuovo cinema» (come diceva
Gramsci per la letteratura, parlando del suo rapporto con
quella d’appendice); oppure cinema diversificati per pubblici
differenziati; oppure cinema di massa e cinéma d’élite (con
conseguente autocensura economica che si aggiungerebbe
a quella politica e a quella culturale, quella cioè del diseguale
sviluppo delle conoscenze linguistiche cinematografiche)
... Eppure è importante che i critici cinematografici
scelgano, che si rendano conto della crisi per esempio,
in tutte le sue implicazioni socio-ideologiche. Per esempio,
sempre in Francia, dove le cose vanno peggio che da noi e
la crisi ci precede di qualche passo, il Ministro degli affari
culturali e il Centro Nazionale della Cinematografia Francese
hanno fatto realizzare alle Società di Economia e di
Matematica Applicata una inchiesta in mezzo al pubblico
sulla situazione e le prospettive della frequenza al cinema e si è scoperto che aumentano i mezzi per uccidere il tempo, ma
diminuisce il tempo da ammazzare. In altre parole, l’insufficienza
del tempo «per vivere» insieme al fatto che il cinema
non esercita più il quasi monopolio delle distrazioni
popolari, non è più quella specie di abitudine fisio-psicologica
che era diventata, la droga di massa (non è stata mai
solamente questo, beninteso), sono altri elementi della crisi
del cinema, però non riguardano più soltanto il cinema,
ma la stessa vita culturale e psicologica della nazione. In
sostanza, il pubblico oggi si è fatto del cinema un’immagine
che non lo stimola più come prima, e il cinema conserva
un’immagine del pubblico che è superata dalle nuove
tendenze di consumo dell’esistenza quale prodotto totale,
mercificazione, reificazione ed estraniazione totalizzante.
La critica, nel mezzo, dovrebbe riuscire a migliorare le due
immagini o avvicinarle, metterle a fuoco; ma finora non ci
è riuscita, anzi...
(…) Ma il cinema oggi risponde ancora a una concezione
macroscopica e ingenuamente romanzesca del divenire
sociale. Per questo i suoi «generi» si riducono al solo genere
romanzesco ottocentesco, e non si è andati al di là di
quel passo – che pure la critica segnalò sporadicamente
fondamentale – consistente nella scoperta della microscopia
deimovimenti esterni, del primo piano come nucleo della
figurazione di un nuovo linguaggio da applicare ai
movimenti interiori, ai meccanismi della coscienza, all’interiorizzazione
dello spettacolo o alla trasformazione in
spettacolo della vita interiore dell’uomo. Non sappiamo
ancora quando sfuggiremo a questa specie di legge poetica
che sembra inclusa nella regola del successo commerciale,
che può essere decretato soltanto da decine di milioni
di persone ai più diversi livelli di cultura e di sensibilità
(il successo del cinema è paragonabile al successo di
un’opera che dev’essere fruita attraverso le epoche, da
diverse umanità, come per mezzo di viaggi nel tempo), ma
è certo che siamo ancora nella fase della medicina emotiva
visuale distribuita in dosi da cavallo a una umanità che
aveva bisogno di un rimedio d’urgenza contro l’eccessiva
strumentalizzazione della ragione, e ne prendeva in dosi
di un’ora e mezzo di inibizione e di ipnosi ininterrotte. In
un’epoca di pianificazioni generali, di tipificazione di
mentalità, l’antidoto culturale è stato così grossolanamente
poetico, ha seguito le regole della volgarizzazione e della
standardizzazione emotiva, delle nevrosi collettive. La
critica ha reagito al meccanismo e ai suoi automatismi
come ha potuto, ma il suo metalinguaggio è rimasto invischiato
nelle stesse remore del linguaggio, mentre doveva
cominciare dal rinnovamento dei suoi stessi strumenti di
analisi cinematografica, cominciare dai cinegrammi come
segni linguistici, dalla semiologia, dallo studio delle strutture
linguistiche del cinema. Noi stessi dovremmo cominciare,
o ricominciare di qui. La antropologia strutturale ci
ha dimostrato che tutto è sistema di segni e di significati
secondi. Anche questo Festival, anche questa «Prima
Mostra Internazionale del Nuovo Cinema» è un sistema di
segni. Il titolo per esempio che, nella sua denotazione
apparentemente semplice come quella di Mostra Internazionale
del Nuovo Cinema sottintende una connotazione
di tendenza culturale. Non si tratta di cinema nuovo in
senso temporale, e le denominazioni, i messaggi pubblicitari,
gli inviti, le iniziative collaterali, le tavole rotonde, i personaggi invitati, l’ospitalità stessa, i gesti e i modi, gli
oggetti, i film stessi alla fine sono tutti segni, riti, protocolli.
Questa Mostra, per esempio, significa una certa ambizione
e una certa fiducia. Crede nel «nuovo» anche soltanto
perché è «nuovo», perché è «primo» e pretende
rischiosamente a una «verifica» dei «fermenti originali e
della volontà di rinnovamento nei contenuti e nel linguaggio
». La Mostra comunica e significa, insomma.
Comunica un’iniziativa, ci informa di lavori compiuti e da
compiere. Significa che il cinema si fa «nuovo»? O che
deve farsi «nuovo»? Se qui si verificano i «fermenti del
rinnovamento linguistico» vuol dire, per esempio, che
questi fermenti sono già stati riscontrati? Oppure ne identificheremo
qui soltanto qualcuno e la verifica verrà
dopo? Ma se questa Mostra si farà ogni anno, il cinema
che qui vedremo sarà «nuovo» ogni anno nel senso polemico
e programmatico evidentemente implicito nella
ragione del suo titolo? È, questo, possibile?
Fra cinema e poetronica (e oltre): le scritture di Gianni Toti - Sandra Lischi
Nel suo ricordo di Gianni Toti sui «Cahiers du Cinéma»
(marzo 2007) Jean-Paul Fargier esordisce con la rievocazione
di una sequenza di SQUEEZANGEZAÙM (1988): la prua
virtuale della corazzata Potemkin che squarcia lo schermo
bianco, come a dirigersi verso gli spettatori. Alla RAI di
Torino, aiutato dai suoi “montautori” e dai suoi “chimeramen”,
Toti aveva sperimentato le strumentazioni per gli
effetti elettronici e realizzato in video l’idea di Ejzenstein,
che avrebbe voluto, alla fine del suo film, una lacerazione
reale dello schermo da parte dell’immagine della prua che
avanza. LA CUIRASSÉ POÈTEMKINE, così Toti aveva rinominato
il film in quel suo videopoema che è un omaggio alle
utopie artistiche e politiche del Novecento, al linguaggio
transmentale di Chlébnikov, alla poesia di Majakovskij.
Frammenti di film si susseguono, intrecciandosi alle
musiche: Toti li rielaborava proprio come faceva con le
parole, per creare significati (“sognificati”, diceva) nuovi,
nuove associazioni di memoria e di immaginazione.
«Faceva cose nuove con le vecchie – scrive ancora Fargier.
Con associazioni forsennate, innesti, sovrapposizioni
di strati, intreccio di frammenti». Del resto, «nei suoi
testi brulicano parole-valigia lanciate in italiano, in francese,
in spagnolo, in russo, in inglese, con la sua voce di
poliglotta post-joyciano ispirato dal trans-linguismo,
arrotolando le sillabe come un declamatore sulle scene,
staccandole l’una dall’altra per far meglio gustare l’origine
di ognuna, spesso prelevandole da lingue diverse. Il suo modello era lo “zaùm” di Chlébnikov: la marmitta futurista, il melting-pot di tutti i linguaggi fusi per creare un parlare inaudito, il solo degno di esprimere la novità
dei tempi rivoluzionari». Quella del cinema è una
traccia che percorre tutta la riflessione e la creazione artistica
di Toti. A partire dalla battaglia per il grande cinema
di poesia, nel dibattito culturale del dopoguerra. «Io
e alcuni altri – una minoranza, effettivamente – eravamo
contrari a tutta l’esaltazione, la retorica neorealista nel
cinema e negli altri campi... Noi, proprio con un rifiuto e
un’uscita di campo, facevamo altre cose... Il cinema celebrato
in tutto il mondo per noi era retrivo nei confronti
del grande cinema di poesia... per quel cinema verista,
naturalista, gli Ejzenstein non esistevano...», mi aveva
detto in una conversazione (Roma, 1995).
Amico di Zavattini – con cui aveva collaborato per i CINEGIORNALI
LIBERI, non cessava di polemizzare con un cinema
inteso come “macchina da prosa” (così diceva), incapace di
articolare, elaborare, trasformare poeticamente la realtà in
linguaggio “altro” o, peggio ancora, piegato a esigenze di
propaganda politica, tentato dall’infausto richiamo del
“messaggio”. È illuminante rileggere oggi i suoi contributi
per la rivista «Cinema & Film», come quello su Ejzenstein
e Vertov (1967) in cui si dialoga con le problematiche
della cine-verità e del cine-occhio. Vi si intravedono, tra le
righe, affermazioni simili a quelle che Toti farà poi, negli
anni Ottanta e Novanta, sul presunto super-occhio elettronico.
«Non basta essere “maestri della vista” – scriveva nel
1967 –, bisogna creare le cose da vedere e che non ci sono
nella verità visuale dell’occhio umano e dell’occhio cinematografico
se non interviene l’autore mitopoietico a farti
conoscere ciò che lui ha costruito per dirti la vita guardata
con gli strumenti più perfezionati, agili e intelligentemente
e persino artisticamente manovrati». A Dziga Vertov
aveva dedicato, nel 1994, PLANETOPOLIS: a lui, la “trottola
volteggiante”, citato in immagini con frammenti de L’UOMO
CON LA MACCHINA DA PRESA; il progetto stesso di questa
gigantesca “video-poem-opera” aveva preso le mosse da
un Simposio sul cineasta, a Mosca, nel 1992. E SQUEEZANGEZAÙM
è un’opera video intessuta di omaggi al cinema:
quello classico (John Ford), quello d’animazione, quello
delle avanguardie storiche. Atto d’amore nei confronti di
un secolo di rappresentazioni e utopie schemiche, quelle
che ci hanno reso tutti “spettratori”, spettatori di ombre, di
spettri, di sogni. Un cinema che si trasforma, proprio nel
senso dello “zaùm”, del linguaggio transmentale di Velimir
Chlébnikov. Torna indietro, si ripete, gioca con se stesso,
si avvita su altre immagini, percorre altre forme, ricrea
didascalie e titoli, come accadrà poi in tutta la produzione
“poetronica” di Toti. Ricordo, durante la post-produzione
di PLANETOPOLIS, il trattamento di immagini di OTTOBRE di
Ejzenstein, con la folla mandata all’indietro, le bandiere
colorate in rosso sul bianco e nero; le sequenze di Pelescian,
di Medvedkin, di Vertov, di Ruttmann ma anche di
documentari scientifici; di Lang, Pennebaker, Marker...
Del resto, forse la sua opera video più toccante, quella che
ha conquistato alle arti elettroniche vari autori e vari critici
(come si è detto recentemente al festival di Clermont-
Ferrand, durante un omaggio a Toti) è INCATENATA ALLA
PELLICOLA del 1982 (una delle parti della TRILOGIA MAJAKOVSKIANA
per la Sperimentazione RAI). Quel frammento di pellicola, di due minuti, salvato dalla distruzione e donato a Toti dall’amica Lilj Brik, compagna per tanti anni
di Majakovskij, veniva dal film di Nikandr Turkin del
1919: vi recitavano i due,mettendo in scena la storia di una
ballerina che esce dallo schermo per amore del giovane
“reale”. Grazie all’intuizione delle possibilità di metamorfosi
e dilatazione temporale e delle alterazioni spaziali e
cromatiche del video, grazie alle parole recitate, alle citazioni
poetiche, all’ingrandimento di dettagli e gesti, a ripetizioni,
incantamenti, malinconie storiche (“malincosmie”,
come diceva Toti), il frammento (ri)diventa opera compiuta,
interpreta nell’arco di un’ora le speranze e le delusioni
di un’intera generazione di appassionati rivoluzionari della
parola e dell’arte, porta alla luce e a nuova vita una
scheggia di memoria altrimenti destinata alla scomparsa.
In modo poetico, evocativo, talora enigmatico, queste
opere sono anche un percorso di riflessione politica,
offrono materia di dubbio e pensiero sull’ascesa e il declino
(o il provvisorio silenzio) del comunismo, che Toti
aveva rinominato “coSmunismo” per sottolinearne la
vocazione planetaria, a venire, al di là di questa o quella
frettolosa e malintesa applicazione.
Il cinema Gianni Toti non lo aveva solo amato, commentato,
studiato, utilizzato nei video. A un certo punto lo
aveva anche fatto, sia come attore (per Faccini, gli
Straub, Gutierrez Alea e altri), sia come soggettista e sceneggiatore
di molti testi che sono rimasti allo stadio di
progetto, sia con due film realizzati: E DI SHAÙL E DEI
SICARI SULLE VIE DA DAMASCO (1973) e ALICE NEL PAESE DELLE
CARTAVIGLIE (1980, operazione cui sono correlati anche
un libro e un 45 giri musicale).
È interessante rileggere oggi i dibattiti (soprattutto su
SHAÙL, montato da Roberto Perpignani e interpretato da
GeorgeWilson) su riviste di quel periodo, da «Cineforum»
alla «Rivista del Cinematografo» a «Cinema Nuovo» e a
«Cinemasessanta». Si tratta di un film che capovolge l’idea
di “cinema storico” e che si costruisce con salti temporali,
provocazioni (i titoli di testa a metà del film), effetti, come
a chiamare il video, più versatile e malleabile della pellicola,
più disposto per la sua natura vibratile e puntiforme
alle “piegature” del linguaggio. «Penso ai film (dice Toti in
uno di questi articoli) come a “libri di immagini sonore e
visive”, che possono quindi aver bisogno di prefazioni, di
post-fazioni, di interventi sulla tessitura, indicazioni utili
al lettore-spettatore perché si fabbrichi da solo le sue “chiavi
di lettura” o di “slettura”, o di “illettura”...».
Scrittore di tutte le scritture, Toti ci fa capire qui come nel
suo itinerario creativo non si tratti di “passare” da un mezzo
a un altro, da una scrittura a un’altra (magari più evoluta
tecnicamente). La pagina – letteralmente e metaforicamente
– è una sola, foglio bianco e chiarore dello schermo,
superficie di proiezione cinematografica e quadro del
monitor. Negli anni Ottanta Gianni Toti diventa unmaestro
della sperimentazione in elettronica, internazionalmente
conosciuto, premiato, celebrato (più all’estero che in Italia,
va detto) fra i pionieri più radicali e più colti del panorama
video. Torna nella “poetronica” la sovversione dei linguaggi,
torna il cinema (medium ormai “completamente nato”
secondo Toti) come modulo del discorso in video, ma
nascono anche figure mai viste prima, avventure di forme,
impaginazioni e creazioni – anche in digitale – di
straordinario impatto sensoriale, intellettuale ed emotivo.
Se leggiamo le analisi critiche del suo lavoro letterario e poetico (come quelle, acutissime, di Giuseppe Zagarrio) riconosciamo le “figure retoriche” totiane, le sue invenzioni, i suoi capovolgimenti di linguaggio, le sue decostruzioni,
anche nelle immagini video: così come il suo respiro
planetario e cosmico, la sua “ironia antroposociologica”, il
suo sguardo sul futuro possibile e “poesibile”. Come ha
ben dimostrato una giovanissima studiosa, Silvia Moretti
(quanti giovani intorno all’opera di Gianni Toti, quanta
attenzione e passione riscuote il suo lavoro negli studenti
che vi si accostano o che l’hanno conosciuto di persona), si
tratta di uno schermo-video-pagina da percorrere con la
scrittura, sfogliare, attraversare, «in una continuità di reciproco
nutrimento tra l’arte scrittoria e visiva». Del resto, i
suoi video-poemi sono affollati di lettere e parole danzanti
e vive, animate (futuristicamente), divenute immagini o
contenitori di immagini; il cinema stesso, prelevato per
“frasi”, diventa un elemento del discorso: commuove un
piccolo Gramsci infagottato, filmato a Mosca (in GRAMSCIATEGUI),
commuove la ballerina Lilj che ha nostalgia della
tela bianca dello schermo, i soldati a cavallo che tornano
indietro, le masse avanzanti che non avanzano più... Pagina,
cinema, video? Parola, scrittura, musica?
Forse la lezione più alta di Gianni Toti, inscindibile dal
rigore e dalla freschezza che assumeva in lui l’esame puntuale
delle varie arti che ha attraversato (e di cui è stato
anche un teorico, formulando concetti e coniando terminologie),
sta proprio in questa poetica e in questa pratica
artistica della compresenza e dell’assunzione “totale” dei
linguaggi. Che fa del resto tutt’uno con la feconda, appassionata
convivenza – nella sua arte e nella sua esperienza
di vita – di tante lingue vive e “morte”, di tanti capolavori
letterari di tutti i tempi, di tante e diverse suggestioni
musicali, conoscenze teatrali, filmiche, scientifiche, filosofiche.
Ma anche di tanti paesi attraversati, persone note e
ignote, incontrate e mai dimenticate, avventure straordinarie,
straordinarie battaglie: umane, poetiche, politiche,
intellettuali. Il partigiano Vania, il militante del “proletariato”,
volentieri cantava quei versi del musicista e poeta
argentino Atuahalpa Yupanqui, cantore degli Indios e dei
dannati della terra, che aveva inserito anche in PLANETOPOLIS:
“prima esser uomo, poi poeta”.
Anche in questa direzione andrà riletta e ripensata e
“riscritta” la sua opera. E ri-vissuta. In modi diversi e nuovi
ma sempre producendo e ragionando e scrivendo e filmando
e inventando e creando senza mai arrendersi al
facile, all’ovvio, al noto. E ancora scrivendo e creando e
ragionando e filmando e producendo e…
(marzo 2007) Jean-Paul Fargier esordisce con la rievocazione
di una sequenza di SQUEEZANGEZAÙM (1988): la prua
virtuale della corazzata Potemkin che squarcia lo schermo
bianco, come a dirigersi verso gli spettatori. Alla RAI di
Torino, aiutato dai suoi “montautori” e dai suoi “chimeramen”,
Toti aveva sperimentato le strumentazioni per gli
effetti elettronici e realizzato in video l’idea di Ejzenstein,
che avrebbe voluto, alla fine del suo film, una lacerazione
reale dello schermo da parte dell’immagine della prua che
avanza. LA CUIRASSÉ POÈTEMKINE, così Toti aveva rinominato
il film in quel suo videopoema che è un omaggio alle
utopie artistiche e politiche del Novecento, al linguaggio
transmentale di Chlébnikov, alla poesia di Majakovskij.
Frammenti di film si susseguono, intrecciandosi alle
musiche: Toti li rielaborava proprio come faceva con le
parole, per creare significati (“sognificati”, diceva) nuovi,
nuove associazioni di memoria e di immaginazione.
«Faceva cose nuove con le vecchie – scrive ancora Fargier.
Con associazioni forsennate, innesti, sovrapposizioni
di strati, intreccio di frammenti». Del resto, «nei suoi
testi brulicano parole-valigia lanciate in italiano, in francese,
in spagnolo, in russo, in inglese, con la sua voce di
poliglotta post-joyciano ispirato dal trans-linguismo,
arrotolando le sillabe come un declamatore sulle scene,
staccandole l’una dall’altra per far meglio gustare l’origine
di ognuna, spesso prelevandole da lingue diverse. Il suo modello era lo “zaùm” di Chlébnikov: la marmitta futurista, il melting-pot di tutti i linguaggi fusi per creare un parlare inaudito, il solo degno di esprimere la novità
dei tempi rivoluzionari». Quella del cinema è una
traccia che percorre tutta la riflessione e la creazione artistica
di Toti. A partire dalla battaglia per il grande cinema
di poesia, nel dibattito culturale del dopoguerra. «Io
e alcuni altri – una minoranza, effettivamente – eravamo
contrari a tutta l’esaltazione, la retorica neorealista nel
cinema e negli altri campi... Noi, proprio con un rifiuto e
un’uscita di campo, facevamo altre cose... Il cinema celebrato
in tutto il mondo per noi era retrivo nei confronti
del grande cinema di poesia... per quel cinema verista,
naturalista, gli Ejzenstein non esistevano...», mi aveva
detto in una conversazione (Roma, 1995).
Amico di Zavattini – con cui aveva collaborato per i CINEGIORNALI
LIBERI, non cessava di polemizzare con un cinema
inteso come “macchina da prosa” (così diceva), incapace di
articolare, elaborare, trasformare poeticamente la realtà in
linguaggio “altro” o, peggio ancora, piegato a esigenze di
propaganda politica, tentato dall’infausto richiamo del
“messaggio”. È illuminante rileggere oggi i suoi contributi
per la rivista «Cinema & Film», come quello su Ejzenstein
e Vertov (1967) in cui si dialoga con le problematiche
della cine-verità e del cine-occhio. Vi si intravedono, tra le
righe, affermazioni simili a quelle che Toti farà poi, negli
anni Ottanta e Novanta, sul presunto super-occhio elettronico.
«Non basta essere “maestri della vista” – scriveva nel
1967 –, bisogna creare le cose da vedere e che non ci sono
nella verità visuale dell’occhio umano e dell’occhio cinematografico
se non interviene l’autore mitopoietico a farti
conoscere ciò che lui ha costruito per dirti la vita guardata
con gli strumenti più perfezionati, agili e intelligentemente
e persino artisticamente manovrati». A Dziga Vertov
aveva dedicato, nel 1994, PLANETOPOLIS: a lui, la “trottola
volteggiante”, citato in immagini con frammenti de L’UOMO
CON LA MACCHINA DA PRESA; il progetto stesso di questa
gigantesca “video-poem-opera” aveva preso le mosse da
un Simposio sul cineasta, a Mosca, nel 1992. E SQUEEZANGEZAÙM
è un’opera video intessuta di omaggi al cinema:
quello classico (John Ford), quello d’animazione, quello
delle avanguardie storiche. Atto d’amore nei confronti di
un secolo di rappresentazioni e utopie schemiche, quelle
che ci hanno reso tutti “spettratori”, spettatori di ombre, di
spettri, di sogni. Un cinema che si trasforma, proprio nel
senso dello “zaùm”, del linguaggio transmentale di Velimir
Chlébnikov. Torna indietro, si ripete, gioca con se stesso,
si avvita su altre immagini, percorre altre forme, ricrea
didascalie e titoli, come accadrà poi in tutta la produzione
“poetronica” di Toti. Ricordo, durante la post-produzione
di PLANETOPOLIS, il trattamento di immagini di OTTOBRE di
Ejzenstein, con la folla mandata all’indietro, le bandiere
colorate in rosso sul bianco e nero; le sequenze di Pelescian,
di Medvedkin, di Vertov, di Ruttmann ma anche di
documentari scientifici; di Lang, Pennebaker, Marker...
Del resto, forse la sua opera video più toccante, quella che
ha conquistato alle arti elettroniche vari autori e vari critici
(come si è detto recentemente al festival di Clermont-
Ferrand, durante un omaggio a Toti) è INCATENATA ALLA
PELLICOLA del 1982 (una delle parti della TRILOGIA MAJAKOVSKIANA
per la Sperimentazione RAI). Quel frammento di pellicola, di due minuti, salvato dalla distruzione e donato a Toti dall’amica Lilj Brik, compagna per tanti anni
di Majakovskij, veniva dal film di Nikandr Turkin del
1919: vi recitavano i due,mettendo in scena la storia di una
ballerina che esce dallo schermo per amore del giovane
“reale”. Grazie all’intuizione delle possibilità di metamorfosi
e dilatazione temporale e delle alterazioni spaziali e
cromatiche del video, grazie alle parole recitate, alle citazioni
poetiche, all’ingrandimento di dettagli e gesti, a ripetizioni,
incantamenti, malinconie storiche (“malincosmie”,
come diceva Toti), il frammento (ri)diventa opera compiuta,
interpreta nell’arco di un’ora le speranze e le delusioni
di un’intera generazione di appassionati rivoluzionari della
parola e dell’arte, porta alla luce e a nuova vita una
scheggia di memoria altrimenti destinata alla scomparsa.
In modo poetico, evocativo, talora enigmatico, queste
opere sono anche un percorso di riflessione politica,
offrono materia di dubbio e pensiero sull’ascesa e il declino
(o il provvisorio silenzio) del comunismo, che Toti
aveva rinominato “coSmunismo” per sottolinearne la
vocazione planetaria, a venire, al di là di questa o quella
frettolosa e malintesa applicazione.
Il cinema Gianni Toti non lo aveva solo amato, commentato,
studiato, utilizzato nei video. A un certo punto lo
aveva anche fatto, sia come attore (per Faccini, gli
Straub, Gutierrez Alea e altri), sia come soggettista e sceneggiatore
di molti testi che sono rimasti allo stadio di
progetto, sia con due film realizzati: E DI SHAÙL E DEI
SICARI SULLE VIE DA DAMASCO (1973) e ALICE NEL PAESE DELLE
CARTAVIGLIE (1980, operazione cui sono correlati anche
un libro e un 45 giri musicale).
È interessante rileggere oggi i dibattiti (soprattutto su
SHAÙL, montato da Roberto Perpignani e interpretato da
GeorgeWilson) su riviste di quel periodo, da «Cineforum»
alla «Rivista del Cinematografo» a «Cinema Nuovo» e a
«Cinemasessanta». Si tratta di un film che capovolge l’idea
di “cinema storico” e che si costruisce con salti temporali,
provocazioni (i titoli di testa a metà del film), effetti, come
a chiamare il video, più versatile e malleabile della pellicola,
più disposto per la sua natura vibratile e puntiforme
alle “piegature” del linguaggio. «Penso ai film (dice Toti in
uno di questi articoli) come a “libri di immagini sonore e
visive”, che possono quindi aver bisogno di prefazioni, di
post-fazioni, di interventi sulla tessitura, indicazioni utili
al lettore-spettatore perché si fabbrichi da solo le sue “chiavi
di lettura” o di “slettura”, o di “illettura”...».
Scrittore di tutte le scritture, Toti ci fa capire qui come nel
suo itinerario creativo non si tratti di “passare” da un mezzo
a un altro, da una scrittura a un’altra (magari più evoluta
tecnicamente). La pagina – letteralmente e metaforicamente
– è una sola, foglio bianco e chiarore dello schermo,
superficie di proiezione cinematografica e quadro del
monitor. Negli anni Ottanta Gianni Toti diventa unmaestro
della sperimentazione in elettronica, internazionalmente
conosciuto, premiato, celebrato (più all’estero che in Italia,
va detto) fra i pionieri più radicali e più colti del panorama
video. Torna nella “poetronica” la sovversione dei linguaggi,
torna il cinema (medium ormai “completamente nato”
secondo Toti) come modulo del discorso in video, ma
nascono anche figure mai viste prima, avventure di forme,
impaginazioni e creazioni – anche in digitale – di
straordinario impatto sensoriale, intellettuale ed emotivo.
Se leggiamo le analisi critiche del suo lavoro letterario e poetico (come quelle, acutissime, di Giuseppe Zagarrio) riconosciamo le “figure retoriche” totiane, le sue invenzioni, i suoi capovolgimenti di linguaggio, le sue decostruzioni,
anche nelle immagini video: così come il suo respiro
planetario e cosmico, la sua “ironia antroposociologica”, il
suo sguardo sul futuro possibile e “poesibile”. Come ha
ben dimostrato una giovanissima studiosa, Silvia Moretti
(quanti giovani intorno all’opera di Gianni Toti, quanta
attenzione e passione riscuote il suo lavoro negli studenti
che vi si accostano o che l’hanno conosciuto di persona), si
tratta di uno schermo-video-pagina da percorrere con la
scrittura, sfogliare, attraversare, «in una continuità di reciproco
nutrimento tra l’arte scrittoria e visiva». Del resto, i
suoi video-poemi sono affollati di lettere e parole danzanti
e vive, animate (futuristicamente), divenute immagini o
contenitori di immagini; il cinema stesso, prelevato per
“frasi”, diventa un elemento del discorso: commuove un
piccolo Gramsci infagottato, filmato a Mosca (in GRAMSCIATEGUI),
commuove la ballerina Lilj che ha nostalgia della
tela bianca dello schermo, i soldati a cavallo che tornano
indietro, le masse avanzanti che non avanzano più... Pagina,
cinema, video? Parola, scrittura, musica?
Forse la lezione più alta di Gianni Toti, inscindibile dal
rigore e dalla freschezza che assumeva in lui l’esame puntuale
delle varie arti che ha attraversato (e di cui è stato
anche un teorico, formulando concetti e coniando terminologie),
sta proprio in questa poetica e in questa pratica
artistica della compresenza e dell’assunzione “totale” dei
linguaggi. Che fa del resto tutt’uno con la feconda, appassionata
convivenza – nella sua arte e nella sua esperienza
di vita – di tante lingue vive e “morte”, di tanti capolavori
letterari di tutti i tempi, di tante e diverse suggestioni
musicali, conoscenze teatrali, filmiche, scientifiche, filosofiche.
Ma anche di tanti paesi attraversati, persone note e
ignote, incontrate e mai dimenticate, avventure straordinarie,
straordinarie battaglie: umane, poetiche, politiche,
intellettuali. Il partigiano Vania, il militante del “proletariato”,
volentieri cantava quei versi del musicista e poeta
argentino Atuahalpa Yupanqui, cantore degli Indios e dei
dannati della terra, che aveva inserito anche in PLANETOPOLIS:
“prima esser uomo, poi poeta”.
Anche in questa direzione andrà riletta e ripensata e
“riscritta” la sua opera. E ri-vissuta. In modi diversi e nuovi
ma sempre producendo e ragionando e scrivendo e filmando
e inventando e creando senza mai arrendersi al
facile, all’ovvio, al noto. E ancora scrivendo e creando e
ragionando e filmando e producendo e…
Gianni Toti di Bruno Torri (Omaggio a Gianni Toti - Mostra Internazionale del nuovo cinema 43. Pesaro)
Sono molte le ragioni che ci hanno spinto, noi della Mostra
Internazionale del Nuovo Cinema, a ricordare Gianni Toti,
a rendergli omaggio in questa edizione della manifestazione
che si svolge sei mesi dopo la sua scomparsa. Ne voglio
indicare almeno due. In primo luogo perché Gianni è stato
un intellettuale e un artista molto originale, che ha occupato
una posizione insieme anomala e rilevante nel panorama
culturale italiano, meritando più di un riconoscimento
anche a livello internazionale: anzi, per quanto riguarda le
sue ultime esperienze creative, sarebbe più esatto dire che
la sua pionieristica attività nel settore dell’arte elettronica è
stata apprezzata meglio all’estero che non in Italia.
Oltre a questa ragione, che già di per sé sarebbe assolutamente
sufficiente, voglio anche rammentare che Gianni è
stato, sin dagli inizi e a più riprese, assai vicino alla
Mostra di Pesaro. Infatti, durante la prima edizione, nel
lontano 1965, partecipa alla Tavola Rotonda intitolata:
“La critica e il nuovo cinema”; e anche nelle due successive
edizioni collabora ad analoghi convegni, ancora centrati,
tematicamente, sulla critica cinematografica e sulle
specificità del linguaggio filmico, tenendovi ogni volta una relazione e risultando così l’unico, assieme a Pier Paolo Pasolini, a essere sempre attivamente presente. In
tal modo contribuì alla realizzazione, e alla riuscita, di
un’iniziativa ripetuta appunto per tre anni consecutivi e
connotata sempre dalla stessa finalità, quella di ridurre lo
scarto allora ravvisabile tra l’avanzamento del “nuovo
cinema” – rispetto al quale la Mostra di Pesaro intendeva
porsi come momento di individuazione e riflessione, di
valutazione e di promozione – e l’arretratezza, teorica e
pratica, dei discorsi sul cinema e sui film.
Poi la sua collaborazione divenne ancor più stretta nell’edizione
1968 della Mostra, che quell’anno risultò segnata,
nel bene e nel male (ma più da quello che da questo), dalla
Contestazione. Gianni era uno dei cinque componenti
della Commissione di Selezione e durante le giornate
pesaresi il suo rapporto con il movimento studentesco,
dapprima piuttosto diffidente ma subito dopo molto partecipe,
fu per lui molto determinante: tanto che, come in
seguito ebbi modo di dirgli, un poco seriamente e un poco
scherzando, Pesaro, quell’anno, rappresentò per lui una
sorta di via di Damasco. Che comunque non lo allontanò
dal Partito Comunista cui si era iscritto sin da giovanissimo,
quando a Roma militava nella Resistenza, semmai
radicalizzò ancor più le sue particolari convinzioni marxiste:
particolari perché Gianni sapeva coniugare ortodossia
e dubbio; e non a caso citava spesso la frase del medesimo
Marx “Io non sono marxista”. Dopo di allora Gianni ritornò
altre volte a Pesaro come spettatore e, in un paio di
occasioni, negli anni Novanta, ancora come protagonista,
cioè come “poetronico” (il neologismo è suo), per presentare
alcuni suoi video e per intervenire in altri convegni
come teorico dei nuovi linguaggi audiovisivi.
Ma, ripeto, Gianni Toti, ben al di là dei suoi apporti e delle
sue condivisioni pesaresi, è stato una personalità di primo
piano in diversi campi culturali; una personalità dotata
di un ingegno multiforme e di straordinarie capacità
produttive. Oltre che lettore insaziabile e viaggiatore planetario,
è stato giornalista (memorabili i suoi articoli dal
Vietnam), romanziere, poeta, saggista, traduttore, critico
cinematografico, regista cinematografico, direttore di una
rivista («Carte segrete») unica nel suo genere, specialmente
per la riscoperta di testi letterari o saggistici italiani e
stranieri, esperto editoriale (creò e curò la collana «I
Taschinabili») e infine, ma non sono affatto sicuro di aver
ricordato tutto, videasta. Attività, questa, cui si dedicò
negli ultimi decenni della sua vita con grande entusiasmo,
riuscendo a immettervi, e a unificare, la vocazione per la
sperimentazione, l’impegno ideologico e un vastissimo
retroterra culturale continuamente alimentato e rielaborato;
e confermandosi, anche in questo ambito espressivo
così peculiare e diverso, anche lavorando con e sulle
immagini, un maestro di logos, nel duplice significato di
“parola” e “ragione” contenuto nel termine greco.
Di tutto ciò a Pesaro intendiamo offrire una testimonianza,
proiettando alcuni suoi video e discutendo la sua opera in
una Tavola Rotonda, alla quale partecipano i suoi più attenti
e penetranti interpreti. I quali, ne sono certo, finiranno
per parlare anche della persona, ovvero, delle sue qualità
umane, del suo amore per la vita, della coerenza con cui ha
sempre vissuto le proprie idee, del suo senso dell’amicizia,
insomma di tutto quello che, assieme alla sua stessa opera,
ci fa ricordare Gianni con ammirazione e riconoscenza.
Internazionale del Nuovo Cinema, a ricordare Gianni Toti,
a rendergli omaggio in questa edizione della manifestazione
che si svolge sei mesi dopo la sua scomparsa. Ne voglio
indicare almeno due. In primo luogo perché Gianni è stato
un intellettuale e un artista molto originale, che ha occupato
una posizione insieme anomala e rilevante nel panorama
culturale italiano, meritando più di un riconoscimento
anche a livello internazionale: anzi, per quanto riguarda le
sue ultime esperienze creative, sarebbe più esatto dire che
la sua pionieristica attività nel settore dell’arte elettronica è
stata apprezzata meglio all’estero che non in Italia.
Oltre a questa ragione, che già di per sé sarebbe assolutamente
sufficiente, voglio anche rammentare che Gianni è
stato, sin dagli inizi e a più riprese, assai vicino alla
Mostra di Pesaro. Infatti, durante la prima edizione, nel
lontano 1965, partecipa alla Tavola Rotonda intitolata:
“La critica e il nuovo cinema”; e anche nelle due successive
edizioni collabora ad analoghi convegni, ancora centrati,
tematicamente, sulla critica cinematografica e sulle
specificità del linguaggio filmico, tenendovi ogni volta una relazione e risultando così l’unico, assieme a Pier Paolo Pasolini, a essere sempre attivamente presente. In
tal modo contribuì alla realizzazione, e alla riuscita, di
un’iniziativa ripetuta appunto per tre anni consecutivi e
connotata sempre dalla stessa finalità, quella di ridurre lo
scarto allora ravvisabile tra l’avanzamento del “nuovo
cinema” – rispetto al quale la Mostra di Pesaro intendeva
porsi come momento di individuazione e riflessione, di
valutazione e di promozione – e l’arretratezza, teorica e
pratica, dei discorsi sul cinema e sui film.
Poi la sua collaborazione divenne ancor più stretta nell’edizione
1968 della Mostra, che quell’anno risultò segnata,
nel bene e nel male (ma più da quello che da questo), dalla
Contestazione. Gianni era uno dei cinque componenti
della Commissione di Selezione e durante le giornate
pesaresi il suo rapporto con il movimento studentesco,
dapprima piuttosto diffidente ma subito dopo molto partecipe,
fu per lui molto determinante: tanto che, come in
seguito ebbi modo di dirgli, un poco seriamente e un poco
scherzando, Pesaro, quell’anno, rappresentò per lui una
sorta di via di Damasco. Che comunque non lo allontanò
dal Partito Comunista cui si era iscritto sin da giovanissimo,
quando a Roma militava nella Resistenza, semmai
radicalizzò ancor più le sue particolari convinzioni marxiste:
particolari perché Gianni sapeva coniugare ortodossia
e dubbio; e non a caso citava spesso la frase del medesimo
Marx “Io non sono marxista”. Dopo di allora Gianni ritornò
altre volte a Pesaro come spettatore e, in un paio di
occasioni, negli anni Novanta, ancora come protagonista,
cioè come “poetronico” (il neologismo è suo), per presentare
alcuni suoi video e per intervenire in altri convegni
come teorico dei nuovi linguaggi audiovisivi.
Ma, ripeto, Gianni Toti, ben al di là dei suoi apporti e delle
sue condivisioni pesaresi, è stato una personalità di primo
piano in diversi campi culturali; una personalità dotata
di un ingegno multiforme e di straordinarie capacità
produttive. Oltre che lettore insaziabile e viaggiatore planetario,
è stato giornalista (memorabili i suoi articoli dal
Vietnam), romanziere, poeta, saggista, traduttore, critico
cinematografico, regista cinematografico, direttore di una
rivista («Carte segrete») unica nel suo genere, specialmente
per la riscoperta di testi letterari o saggistici italiani e
stranieri, esperto editoriale (creò e curò la collana «I
Taschinabili») e infine, ma non sono affatto sicuro di aver
ricordato tutto, videasta. Attività, questa, cui si dedicò
negli ultimi decenni della sua vita con grande entusiasmo,
riuscendo a immettervi, e a unificare, la vocazione per la
sperimentazione, l’impegno ideologico e un vastissimo
retroterra culturale continuamente alimentato e rielaborato;
e confermandosi, anche in questo ambito espressivo
così peculiare e diverso, anche lavorando con e sulle
immagini, un maestro di logos, nel duplice significato di
“parola” e “ragione” contenuto nel termine greco.
Di tutto ciò a Pesaro intendiamo offrire una testimonianza,
proiettando alcuni suoi video e discutendo la sua opera in
una Tavola Rotonda, alla quale partecipano i suoi più attenti
e penetranti interpreti. I quali, ne sono certo, finiranno
per parlare anche della persona, ovvero, delle sue qualità
umane, del suo amore per la vita, della coerenza con cui ha
sempre vissuto le proprie idee, del suo senso dell’amicizia,
insomma di tutto quello che, assieme alla sua stessa opera,
ci fa ricordare Gianni con ammirazione e riconoscenza.
jueves, 28 de enero de 2010
Scrive Mario Lunetta in Poesia italiana oggi (Newton Compton 1981):
ecco gli "sfavillanti deliri lessical/sintattici/semantici di quell'inguaribile cultore dell'infra-metaetimologia che è Toti: la cui sfrenatezza ha sempre le briglie sul collo, ben tirate, e il collo sotto la testa. Che è poi il testo, con la sua lucida ragione motoria a pieno regime. Toti è maestro in una pratica della scrittura come contraddizione tutta giocata sulla rissa sulfurea dei significanti che partoriscono da sé, in una serie di giostre acri e gioiose, catene e catene di significati, praticamente all'infinito. La sua «padronanza assoluta» della retorica e delle lingue (morte e viventi) ne fanno un caso radicale di fortissimo poeta «inattuale» dotato di irriverente attualità."
ecco gli "sfavillanti deliri lessical/sintattici/semantici di quell'inguaribile cultore dell'infra-metaetimologia che è Toti: la cui sfrenatezza ha sempre le briglie sul collo, ben tirate, e il collo sotto la testa. Che è poi il testo, con la sua lucida ragione motoria a pieno regime. Toti è maestro in una pratica della scrittura come contraddizione tutta giocata sulla rissa sulfurea dei significanti che partoriscono da sé, in una serie di giostre acri e gioiose, catene e catene di significati, praticamente all'infinito. La sua «padronanza assoluta» della retorica e delle lingue (morte e viventi) ne fanno un caso radicale di fortissimo poeta «inattuale» dotato di irriverente attualità."
Il tempo libero
L'ultima pagina (scritta nel 1974) de Il tempo libero (Editori Riuniti, 1961, sec. ed. aggiornata 1975)
"In conclusione, se «tutto lo sviluppo della ricchezza umana si basa sulla creazione di tempo disponibile», il tempo di liberazione sarà la base e la dimensione della nostra attuale e possibile ricchezza, e così lo chiameremo, lasciando il sintagma del «tempo libero» alle provvisorie comodità del discorso, alla sua funzione estraniata. E continueremo a liberare il tempo anche dalla sua falsa libertà, dalla sua falsata coscienza, nello stesso tempo dalla forma ideologica trapassando alla forma utopica della nostra sociale progettazione. Certo, nessuno di noi si occuperà di elaborare menù di tempo liberato per le cucine futur(poss)ibili. Già persino le timide e ironiche profezie di Marx sulla «società comunista in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsìasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore né critico» diventano facilmente oggi oggetto di affettuosa controironia come scelte tipiche di un gentiluomo inglese di quel tempo, un po' raggelate in una stampa colorata o datata, come quegli ideali da country gentle-man o da squirearchy neopositivista, con una perdita di quella drammaticità che oggi intride per noi ogni ucronica fantasmasìa. Sarà forse meglio concentrarsi sul tempo di liberazione che sul tempo (che sarà stato) liberato e, se mai, cercare il futuro nelle ufanìe dell'arte, e ritrovarlo nella commozione antifeticistica e defeticeizzante con cui partecipiamo alla mediazione creatrice dell'artifattura critica di una soggettività vergognosa del proprio silenzio (pre-artistico) percettivo. Ricordando magari con il poeta l'esortazione della statua apollinea al contemplatore: «Devi cambiare la tua vita». In fondo, è tutto qui. Solo che dobbiamo cambiarla da soli e insieme in quel tempo di liberazione che è anche liberazione del nostro attuale tempo (il)libero. Per ridirla con il Goethe di Epìrrema:
guardate sempre all'uno come al tutto;
niente sta dentro, niente sta fuori.
Perché ciò che sta dentro, sta fuori,
E così afferrate senza dilazioni
il mistero sacramente pubblico..."
"In conclusione, se «tutto lo sviluppo della ricchezza umana si basa sulla creazione di tempo disponibile», il tempo di liberazione sarà la base e la dimensione della nostra attuale e possibile ricchezza, e così lo chiameremo, lasciando il sintagma del «tempo libero» alle provvisorie comodità del discorso, alla sua funzione estraniata. E continueremo a liberare il tempo anche dalla sua falsa libertà, dalla sua falsata coscienza, nello stesso tempo dalla forma ideologica trapassando alla forma utopica della nostra sociale progettazione. Certo, nessuno di noi si occuperà di elaborare menù di tempo liberato per le cucine futur(poss)ibili. Già persino le timide e ironiche profezie di Marx sulla «società comunista in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsìasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore né critico» diventano facilmente oggi oggetto di affettuosa controironia come scelte tipiche di un gentiluomo inglese di quel tempo, un po' raggelate in una stampa colorata o datata, come quegli ideali da country gentle-man o da squirearchy neopositivista, con una perdita di quella drammaticità che oggi intride per noi ogni ucronica fantasmasìa. Sarà forse meglio concentrarsi sul tempo di liberazione che sul tempo (che sarà stato) liberato e, se mai, cercare il futuro nelle ufanìe dell'arte, e ritrovarlo nella commozione antifeticistica e defeticeizzante con cui partecipiamo alla mediazione creatrice dell'artifattura critica di una soggettività vergognosa del proprio silenzio (pre-artistico) percettivo. Ricordando magari con il poeta l'esortazione della statua apollinea al contemplatore: «Devi cambiare la tua vita». In fondo, è tutto qui. Solo che dobbiamo cambiarla da soli e insieme in quel tempo di liberazione che è anche liberazione del nostro attuale tempo (il)libero. Per ridirla con il Goethe di Epìrrema:
guardate sempre all'uno come al tutto;
niente sta dentro, niente sta fuori.
Perché ciò che sta dentro, sta fuori,
E così afferrate senza dilazioni
il mistero sacramente pubblico..."
L'essenza della tecnica non è tecnica - Gianni Toti
Stimolato al dibattito dall'articolo (volantino-proclama-documento politico) di Alberto Abbruzzese (« Non è più tempo di teorie ») pubblicato sul numero 39 di Rassegna Sindacale,del marzo 1981 interviene Gianni Toti. Un articolo che merita di essere riletto...
Che singolare teoria, questa secondo la quale «non è più tempo di teorie». Ma il filosofo con il vizio dell'effìmero» lo sostiene come se la teoria fosse... che cos'è la teoria? Ma non era forse il livello più alto della prassìa? E viceversa? Steorizziamo, dunque? Ohne theorie keìne revolution, si diceva poco fa, « or non è guari »... Eccomi dunque «stimolato al dibattito», come al solito e come si augura — sul n. 8 di Rassegna Sindacale — il commentatore del « volantino-proclama-documento politico » del « maestro del pensiero » di moda, altrimenti detto Architéoro, dalla Teoria-sacrificio offerta al Theos della Theorìa, ciò fu al Dio dello Sguardo... Se mai un tempo ci fu per « guardare » e « vedere » bene, è proprio questo, troppo nebbioso ideologicamente.
Ma è proprio adesso che si scatena l’antiteoria più teorizzata, l'antintellettualismo più intellettualistico, l'antipoetismo, Tantiartisticismo, ecc. « Dagli all'autore! » è il grido d'ordine che, per esempio, si sente risuonare più spesso, anche in aree sinistriere. E ci avrebbe dovuto pre-occupare, non post-occupare come fa qualche regista cinematografico in allarme tardivo perché « si prospetta con crescente chiarezza la tendenza progressiva alla svalutazione del peso e della figura stessa dell'autore, in un processo di vera e propria spersonalizzazione, quasi una perdita d'identità » (lettera di Damiano Damiani ai soci dell'Anac, l'Associazione nazionale degli autori cinematografici che non è mai riuscita finora a scegliere una posizione « qualitativa » unitaria nei confronti delle responsabilità culturali dei suoi aderenti). Siamo arrivati al «paradosso incredibile di una catena di montaggio che produce poesia» (su L'Unità, il critico comunista David Grieco, ma sic!, a proposito di De Niro e dei « tremendi ingranaggi industriali» che produrrebbero arte...).
E i filosofi abruzzesi celebrano i riti del giovedì Problemi dell'informazione l'esaltazione « serialistica » su Rinascita e altrovunque, evviveggiando al « telefilm-saga », (e al « metagenere », al « megatesto » ecc), e auspicando « l'allestimento di un dispositivo linguistico-narrativo-espressivo analogo » a quello di « Dallas », « prodotto in Italia ». « Lavorando e studiando seriamente »... sogna l’Albertone nazional nostro sociologo di massa, dimenticando di inserire una elle nel suo « seriamente ». Ahiluinoi! serialmente studiando e lavorando, è arrivato alla conclusione, davvero « peregrina », che « è necessario inventare dispositivi atti a compensare l'assenza» eventuale di « telefilm » italiani « e a fronteggiare così la forza della diffusione americana »... E' con queste sognerìe da periferia imperiale che rispondiamo « all'attacco frontale di un'informazione tecnologicamente evoluta »? E se « parliamo e scriviamo», questi nostri «parlare e scrivere » sono solo « forme di produzione in via di obsolescenza, oltre che direzioni politiche e culturali frantumate»?
L'abbagliamento dovuto al buio splendore delle networks o delle majors americane oppure HollyWoody Alien, è solo uno « sbagliore » socioillogico? O è dovuto a una miopia da obnubilamento supertecnotronico? La logìa della tecnica americana non è da demonizzare né da divinizzare: fra un mixer Vital a disposizione della Rai e un Grass Valley 300 ancora non arrivato da noi, la differenza è solo di quantità: ambedue le tecnotronìe sono sottoutilizzate e ridotte all'uso delle peculiarità informative, ovvero al disuso delle specifiche proprietà sinestesiche e tecnìtiche (varrebbero a dire, sì: artistiche). Ma di fronte all'adorazione subalterna dei « serials di strepitoso successo » a poco valgono i richiami alla presa di coscienza tecnica di questi « mezzi di massa », o di questa « massa di mezzi» che sono soltanto «mezzi », appunto, di un'epoca industriale in cui la pasta della màza (focaccia o pan d'orzo da impastare) sembra agglutinare, inghiomare classi, ceti, strati, pubblici, e i non dividui che dovremmo essere (non soltanto «non divisibili» ma neppure addizionagli; moltiplicabili sommai).
Il « protagonismo dal basso », il « policentrismo»: puri sogni sociologici se la riduzione politicistica all'appiattimento culturale prevalesse. Certo, bisogna reagire alla totalizzazione tendenziale della grande macchina telematica, e (qui Alberto ha ragione vendere, ma soltanto razioide, e nessuno la compra) il movimento sindacale non è riuscito, finora, neppure ad articolare una «politica del tempo (non) libero» da liberare davvero. Ma non si combatte la « grande subcultura industriale» con la «piccola subcultura industriata» che si vorrebbe « grande » come quella industriante e omogeneizzante, mentre sul piano tecnico dispone già di altrettali dispositivi meccanici: le manca solo quel «supplemento d'anima » che urge anche nella nostra Cacania...
Il nodo da recidere (o parvulo Alessandralo abruzzese!) non è quello dello «sviluppo elettronico» già arrivato o in arrivo anche da noi. Per essere «politicamente competitivi sul mercato dell'informazione» bisogna combattere « l'informazione del mercato » e la «competitivita» stessa, non considerare « informazione » solo quella «mercata», non teo-logizzare quel « mercato », non inginocchiarsi davanti a nessun « major », battersi per superare «la qualità senza uomo», «il mondo senza qualità»; e non venerare da pigmei ipotecnoidi quell’«aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento di impotenza » di cui i pensatori della crisi parlavano con ohiaroveggenza quando ammonivano (Nestroy-Wittgenstein per esempio) che « in genere, il progresso ha la proprietà di apparire maggiore di quello che è veramente ». Effettivamente, la «politicizzazione o la sindacalizzazione dello spirito » costituiscono una pericolosa confusione di ruoli (si pensi agli enti locali «produttori di cultura » in proprio o quasi). Meglio non cedere alle facili abbreviazioni.
Naturalmente, sarebbe più che augurabile un congruo investimento di energie e mezzi da parte dei «partiti e dei sindacali della sinistra » come auspica il mio buon nemicamico Alberto Abruzzese. Ma bisogna avere ben chiaro che neppure « un progotto di dimensione nazionale e di portata tecnologica adeguata», con «l'edificazione di luoghi di produzione e di consumo legati a risorse economiche politicamente mature » ecc. potrebbero bastare al contrasto del superpotere tecnotronico. Soprattutto se lo spirito della competitivita è quello dell'angelo con le ali tristi perché non sono state cosmotorizzate. La vera competizione è un'altra: non riguarda i mezzi ma i fini. La mass-mediaevalizzazione che ci minaccia anche in casa nostra nel «futuro immediato » si occulta nel linguaggio apparentemente spregiudicato di un « pragmatismo senza teoria » (è poi la teoria del pragmatismo puro e semplice) che non dovrebbe essere il nostro. Perché l'essenza della tecnica, caro Abruzzese e cari «rassegnatori sindacali», non è tecnica...
(Rassegna sindacale, n.39 marzo 1981)
Che singolare teoria, questa secondo la quale «non è più tempo di teorie». Ma il filosofo con il vizio dell'effìmero» lo sostiene come se la teoria fosse... che cos'è la teoria? Ma non era forse il livello più alto della prassìa? E viceversa? Steorizziamo, dunque? Ohne theorie keìne revolution, si diceva poco fa, « or non è guari »... Eccomi dunque «stimolato al dibattito», come al solito e come si augura — sul n. 8 di Rassegna Sindacale — il commentatore del « volantino-proclama-documento politico » del « maestro del pensiero » di moda, altrimenti detto Architéoro, dalla Teoria-sacrificio offerta al Theos della Theorìa, ciò fu al Dio dello Sguardo... Se mai un tempo ci fu per « guardare » e « vedere » bene, è proprio questo, troppo nebbioso ideologicamente.
Ma è proprio adesso che si scatena l’antiteoria più teorizzata, l'antintellettualismo più intellettualistico, l'antipoetismo, Tantiartisticismo, ecc. « Dagli all'autore! » è il grido d'ordine che, per esempio, si sente risuonare più spesso, anche in aree sinistriere. E ci avrebbe dovuto pre-occupare, non post-occupare come fa qualche regista cinematografico in allarme tardivo perché « si prospetta con crescente chiarezza la tendenza progressiva alla svalutazione del peso e della figura stessa dell'autore, in un processo di vera e propria spersonalizzazione, quasi una perdita d'identità » (lettera di Damiano Damiani ai soci dell'Anac, l'Associazione nazionale degli autori cinematografici che non è mai riuscita finora a scegliere una posizione « qualitativa » unitaria nei confronti delle responsabilità culturali dei suoi aderenti). Siamo arrivati al «paradosso incredibile di una catena di montaggio che produce poesia» (su L'Unità, il critico comunista David Grieco, ma sic!, a proposito di De Niro e dei « tremendi ingranaggi industriali» che produrrebbero arte...).
E i filosofi abruzzesi celebrano i riti del giovedì Problemi dell'informazione l'esaltazione « serialistica » su Rinascita e altrovunque, evviveggiando al « telefilm-saga », (e al « metagenere », al « megatesto » ecc), e auspicando « l'allestimento di un dispositivo linguistico-narrativo-espressivo analogo » a quello di « Dallas », « prodotto in Italia ». « Lavorando e studiando seriamente »... sogna l’Albertone nazional nostro sociologo di massa, dimenticando di inserire una elle nel suo « seriamente ». Ahiluinoi! serialmente studiando e lavorando, è arrivato alla conclusione, davvero « peregrina », che « è necessario inventare dispositivi atti a compensare l'assenza» eventuale di « telefilm » italiani « e a fronteggiare così la forza della diffusione americana »... E' con queste sognerìe da periferia imperiale che rispondiamo « all'attacco frontale di un'informazione tecnologicamente evoluta »? E se « parliamo e scriviamo», questi nostri «parlare e scrivere » sono solo « forme di produzione in via di obsolescenza, oltre che direzioni politiche e culturali frantumate»?
L'abbagliamento dovuto al buio splendore delle networks o delle majors americane oppure HollyWoody Alien, è solo uno « sbagliore » socioillogico? O è dovuto a una miopia da obnubilamento supertecnotronico? La logìa della tecnica americana non è da demonizzare né da divinizzare: fra un mixer Vital a disposizione della Rai e un Grass Valley 300 ancora non arrivato da noi, la differenza è solo di quantità: ambedue le tecnotronìe sono sottoutilizzate e ridotte all'uso delle peculiarità informative, ovvero al disuso delle specifiche proprietà sinestesiche e tecnìtiche (varrebbero a dire, sì: artistiche). Ma di fronte all'adorazione subalterna dei « serials di strepitoso successo » a poco valgono i richiami alla presa di coscienza tecnica di questi « mezzi di massa », o di questa « massa di mezzi» che sono soltanto «mezzi », appunto, di un'epoca industriale in cui la pasta della màza (focaccia o pan d'orzo da impastare) sembra agglutinare, inghiomare classi, ceti, strati, pubblici, e i non dividui che dovremmo essere (non soltanto «non divisibili» ma neppure addizionagli; moltiplicabili sommai).
Il « protagonismo dal basso », il « policentrismo»: puri sogni sociologici se la riduzione politicistica all'appiattimento culturale prevalesse. Certo, bisogna reagire alla totalizzazione tendenziale della grande macchina telematica, e (qui Alberto ha ragione vendere, ma soltanto razioide, e nessuno la compra) il movimento sindacale non è riuscito, finora, neppure ad articolare una «politica del tempo (non) libero» da liberare davvero. Ma non si combatte la « grande subcultura industriale» con la «piccola subcultura industriata» che si vorrebbe « grande » come quella industriante e omogeneizzante, mentre sul piano tecnico dispone già di altrettali dispositivi meccanici: le manca solo quel «supplemento d'anima » che urge anche nella nostra Cacania...
Il nodo da recidere (o parvulo Alessandralo abruzzese!) non è quello dello «sviluppo elettronico» già arrivato o in arrivo anche da noi. Per essere «politicamente competitivi sul mercato dell'informazione» bisogna combattere « l'informazione del mercato » e la «competitivita» stessa, non considerare « informazione » solo quella «mercata», non teo-logizzare quel « mercato », non inginocchiarsi davanti a nessun « major », battersi per superare «la qualità senza uomo», «il mondo senza qualità»; e non venerare da pigmei ipotecnoidi quell’«aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento di impotenza » di cui i pensatori della crisi parlavano con ohiaroveggenza quando ammonivano (Nestroy-Wittgenstein per esempio) che « in genere, il progresso ha la proprietà di apparire maggiore di quello che è veramente ». Effettivamente, la «politicizzazione o la sindacalizzazione dello spirito » costituiscono una pericolosa confusione di ruoli (si pensi agli enti locali «produttori di cultura » in proprio o quasi). Meglio non cedere alle facili abbreviazioni.
Naturalmente, sarebbe più che augurabile un congruo investimento di energie e mezzi da parte dei «partiti e dei sindacali della sinistra » come auspica il mio buon nemicamico Alberto Abruzzese. Ma bisogna avere ben chiaro che neppure « un progotto di dimensione nazionale e di portata tecnologica adeguata», con «l'edificazione di luoghi di produzione e di consumo legati a risorse economiche politicamente mature » ecc. potrebbero bastare al contrasto del superpotere tecnotronico. Soprattutto se lo spirito della competitivita è quello dell'angelo con le ali tristi perché non sono state cosmotorizzate. La vera competizione è un'altra: non riguarda i mezzi ma i fini. La mass-mediaevalizzazione che ci minaccia anche in casa nostra nel «futuro immediato » si occulta nel linguaggio apparentemente spregiudicato di un « pragmatismo senza teoria » (è poi la teoria del pragmatismo puro e semplice) che non dovrebbe essere il nostro. Perché l'essenza della tecnica, caro Abruzzese e cari «rassegnatori sindacali», non è tecnica...
(Rassegna sindacale, n.39 marzo 1981)
Una lettera di Gianni Toti a Giorgio Di Costanzo
Data del timbro postale: 2 (?) maggio 1987
[...] Ri-vedere la letteratura nel suo working process o progress è necessario, e particolarmente nei periodi di così maledetta transizione verso un diverso "stato dell'arte". Proprio oggi che i modelli mentali di scienze e arti si confrontano (basti pensare ai sette video che io stesso sono stato incaricato di realizzare da parte degli scienziati triestini della Intercultural Society for Science and Art per la mostra "L'Imaginaire Scientifique" che si è tenuta nella primavera del 1986 alla Géode della Cité des Sciences, Tecniques et Industrie alla Villette di Parigi e, questa primavera, già come seconda edizione, nell'Area di Ricerca della Fiera di Milano). All'orizzonte si profila un modello unitario della creatività umana. I miei sette videopoemi scientifici o scientipoemi sono le prime prove della sinestetronica in fieri...
... Il continuo spostamento da un'area semantica all'altra è ormai la condizione creativa minima per poter continuare a "descrivere l'universo" e contemporaneamente a "continuarne la creazione", e la critica estrema del pensiero può essere perseguita proprio dai linguaggi artistici in lotta permanente contro se stessi e le proprie soglie critiche. Quindi Carte segrete da una parte, per la ricerca di questi buchi neri delle lingue e dei linguaggi e per la sperimentazione delle fughe dagli orizzonti collassanti degli eventi; e, dall'altra, la poesia degli Strani attrattori come si intitola il mio ultimo libro di poesia, (edizioni Empiria, finalista al premio Camaiore '87 insieme a Giudici, Roversi, Cacciatore, Faggi) che assorbe anche la proliferazione neologistico-scientifica, i nuovi "campi" lessicali per dire l'indicibile del "postmodernariato", l'oltrelinguaggio epocale che sembra sfuggirci, nella mass-media-evalizzazione globale. Per questo la "poetronica" ovvero la "poesia elettronica", o la "poematica" o "poesia trans-informazione-automatica" (del "villaggio planetario elettrico") pone il tema della fusione dei linguaggi e della creazione di nuove arti, non sostitutive delle vecchie arti compiute ma aggiuntive e anche re-inglobanti: ...pour donner un sens pur / au mots de la tribù...
... Da qualche anno sto scrivendo "irracconti " o "inenarrazioni", "in raccontumacia", pubblicandoli in mannelli diversi sulle riviste di frontiera che me li chiedono (e a volte travestendoli anche, nascondendoli sotto altri nomi d'autore). Ne ha pubblicato un'ultima scelta la rivista-collana dei "Magazzini Generali di Poesia", dopo "Anterem", "Marka", "Lunario nuovo", "La Battana", etc. e sta per pubblicarne un'altra sezione la nuova rivista "Taverna di Auerbach". Intanto mi preparo a girare l'ultima "videopera" per la tricoproduzione della Ricerca e Sperimentazione Programmi Rai, la Terze Rete e l'Istituto Luce, a partire dal personaggio Velemir Chlebnikov, di cui è appena ricorso il centenario della nascita, videopera dal titolo "Squeezangezaùm" (combinazione tra il "generatore di effetti speciali "squeezoom", il titolo del poema chlebnikoviano "Zangezi" e la lingua transmentale dei futuriani di settanta anni fa, la "zaùm". Scrivo anche, soprattutto, poemetti scientipoematici e preparo da molto tempo un "inerromanzo in versi" di cui non dirò altro finchè non l'avrò compiuto... Inoltre, elaboro continuamente il "totiano", o "poetotiano", la lingua in cui scrivo le mie "utotìe"...
...ecco qua, carissimo Giorgio
... e promessa di farti mandare il 51, 52, 53 di "Carte segrete", nella speranza poi un giorno di venirti a ritrovare nell'isola, e passare una sognata, da troppo tempo, vacanza con il mio vecchio giovane amico... Ma tu fammi avere "Litera-tour" (simpatoticissimo titolo) e il ... di Ischia: me lo avevi promesso... E dammi tue notizie un po' più fitte: mi verrebbe voglia di ripeterti le domande che mi fai tu!
Insomma, a presto, qua o là. Con un forte affettuosissimo abbraccio da me e da Marinka...
tuo Gianni Toti
[...] Ri-vedere la letteratura nel suo working process o progress è necessario, e particolarmente nei periodi di così maledetta transizione verso un diverso "stato dell'arte". Proprio oggi che i modelli mentali di scienze e arti si confrontano (basti pensare ai sette video che io stesso sono stato incaricato di realizzare da parte degli scienziati triestini della Intercultural Society for Science and Art per la mostra "L'Imaginaire Scientifique" che si è tenuta nella primavera del 1986 alla Géode della Cité des Sciences, Tecniques et Industrie alla Villette di Parigi e, questa primavera, già come seconda edizione, nell'Area di Ricerca della Fiera di Milano). All'orizzonte si profila un modello unitario della creatività umana. I miei sette videopoemi scientifici o scientipoemi sono le prime prove della sinestetronica in fieri...
... Il continuo spostamento da un'area semantica all'altra è ormai la condizione creativa minima per poter continuare a "descrivere l'universo" e contemporaneamente a "continuarne la creazione", e la critica estrema del pensiero può essere perseguita proprio dai linguaggi artistici in lotta permanente contro se stessi e le proprie soglie critiche. Quindi Carte segrete da una parte, per la ricerca di questi buchi neri delle lingue e dei linguaggi e per la sperimentazione delle fughe dagli orizzonti collassanti degli eventi; e, dall'altra, la poesia degli Strani attrattori come si intitola il mio ultimo libro di poesia, (edizioni Empiria, finalista al premio Camaiore '87 insieme a Giudici, Roversi, Cacciatore, Faggi) che assorbe anche la proliferazione neologistico-scientifica, i nuovi "campi" lessicali per dire l'indicibile del "postmodernariato", l'oltrelinguaggio epocale che sembra sfuggirci, nella mass-media-evalizzazione globale. Per questo la "poetronica" ovvero la "poesia elettronica", o la "poematica" o "poesia trans-informazione-automatica" (del "villaggio planetario elettrico") pone il tema della fusione dei linguaggi e della creazione di nuove arti, non sostitutive delle vecchie arti compiute ma aggiuntive e anche re-inglobanti: ...pour donner un sens pur / au mots de la tribù...
... Da qualche anno sto scrivendo "irracconti " o "inenarrazioni", "in raccontumacia", pubblicandoli in mannelli diversi sulle riviste di frontiera che me li chiedono (e a volte travestendoli anche, nascondendoli sotto altri nomi d'autore). Ne ha pubblicato un'ultima scelta la rivista-collana dei "Magazzini Generali di Poesia", dopo "Anterem", "Marka", "Lunario nuovo", "La Battana", etc. e sta per pubblicarne un'altra sezione la nuova rivista "Taverna di Auerbach". Intanto mi preparo a girare l'ultima "videopera" per la tricoproduzione della Ricerca e Sperimentazione Programmi Rai, la Terze Rete e l'Istituto Luce, a partire dal personaggio Velemir Chlebnikov, di cui è appena ricorso il centenario della nascita, videopera dal titolo "Squeezangezaùm" (combinazione tra il "generatore di effetti speciali "squeezoom", il titolo del poema chlebnikoviano "Zangezi" e la lingua transmentale dei futuriani di settanta anni fa, la "zaùm". Scrivo anche, soprattutto, poemetti scientipoematici e preparo da molto tempo un "inerromanzo in versi" di cui non dirò altro finchè non l'avrò compiuto... Inoltre, elaboro continuamente il "totiano", o "poetotiano", la lingua in cui scrivo le mie "utotìe"...
...ecco qua, carissimo Giorgio
... e promessa di farti mandare il 51, 52, 53 di "Carte segrete", nella speranza poi un giorno di venirti a ritrovare nell'isola, e passare una sognata, da troppo tempo, vacanza con il mio vecchio giovane amico... Ma tu fammi avere "Litera-tour" (simpatoticissimo titolo) e il ... di Ischia: me lo avevi promesso... E dammi tue notizie un po' più fitte: mi verrebbe voglia di ripeterti le domande che mi fai tu!
Insomma, a presto, qua o là. Con un forte affettuosissimo abbraccio da me e da Marinka...
tuo Gianni Toti
Work in regress
(da Viaggio al termine della parola)
col cerebronico e gli interminali
già i futuri commemorizziamo
pessime ottimalizzazioni ottime
pessimazioni poetelematiche
cosmatiche cosmetiche...
dati i dati date le date
alle banche date dei “data”
videostampàtevi in ufanìa:
qui i finzionari che fanno
pensare le macchine che fanno
ciò che spensano e sfanno
quando esonerano il cerebello
qui work in regress. -
Cloniche di ucronie
qualche qualcosa talche talcosa
con un pr(o)emio di talità
un talitario un qualcosario
ci ci-clonano sapete
a-b-cicloni ci fanno
- uclonìa ! uclonìa !
anaclonistiche chi
mere parvenze
pauro paulo pauco paupero
purvulo alessandrulo
Ignotizie
ineffabili le ineffìbule
fibulistiche fabule di ablate
clito non più ridenti
ninfe e glandi labiule
con spine d'acacia ritorte
rivulvoluzione ? trenta
milioni di bucche cucite
già rivulvoluzionate
Brevidia (prime vociferazioni per un Contraddizionario)
ricomincerò dalla tua faccia senza faccia tutta dita
perché se dico ti prendo la mano ti tocco
con queste parole che bucano l'aria
se ti prendo la mano se ti dico ti prendo
la mano ti tocco anche con le parole
con cui ti prendo intanto la mano
se sul silenzuolo ci prendiamo tutto
che altro tocchiamo intangibili intatti
là dove si tocca ciò che non si tocca
con la mano e con la parola?
se noi ci scateniamo allo smontaggio del tatto
con silenzi incrociati a verbi scritti
e nomi d'azione e piccole verghe accentuate
che cosa rimonteremo se non quelle catenule
di polpastrelli tenui muscolature lisce?
contrattacizione
alacriloquente il tuo è un tristilòquio
irsuta lallazione nel poetorio
senza giardino e senza purgazione
meglio tacere paraulando
L'inutilità del poeta di Giorgio Di Costanzo
Colloquio con Gianni Toti
[...]Venerdì 24 aprile, nei locali del Centro culturale del Torrione di Forio... gli ospiti erano Marinka Dallos, Gianni Toti e il prof Peter Sarkozy, docente di letteratura ungherese all'Università di Roma, che ha introdotto la serata con una relazione storico-critica sulla poesia ungherese dalle origini a oggi.
Marinka Dallos e Gianni Toti hanno letto, tra l'altro, testi di Deszo Kosztolany, Attila Joszef, Endre Ady e Miklos Radnoti.
In occasione di questo ennesimo incontro di poesia ho rivolto alcune domande all'amico Gianni Toti.
- Inizio rifacendomi a quanto scrive Stefano Lanuzza in un saggio recente sulla tua poesia: “Gianni Toti, sorta di Jarry italiano che interpreta occasioni esistenziali e storiche, ecologo dell'ideologia avversa all'inquinamento di notizie e ai pestiferi epigoni che tanto ancora adugiano la nostra repubblica letteraria”. Molto brutalmente, ti chiedo: qual'è la funzione del poeta?
Questo tipo di domanda è simile alle domande con cui si organizzano convegni e congressi: qual'è la funzione o il modo dell'intellettuale, del musicista, del filosofo... Questa è una domanda da non porsi o magari essere formulata in modo diverso: non esiste una funzione del poeta. Perché il poeta non è un funzionario, non funge, non adempie, anzi È INUTILE. A questo punto può sembrarti provocatorio, ma se ti dico che il poeta non deve essere utile a nessuno, tutto diventa più chiaro. Non essere utile significa non essere usabile, significa non servire. Se dico che la poesia non serve può sembrare provocatorio, ma se ti dico che la poesia non deve servire a nessuno la cosa è diversa. Se non serve a nessuno allora serve, ma a se stessa. Per questo, dico sempre che la poesia non deve servire neppure la rivoluzione o qualsiasi altra nobile causa. Semmai penso che bisogna fare la rivoluzione perché la rivoluzione serve alla poesia.
Per chiarire meglio questa idea vorrei ricordarti il titolo del mio ultimo libro di poesia, Compoe[to]tibilmente infungibile, che riassume l'idea che la poesia è infungibile, cioé non ha funzioni, che non è compa[to]tibile con se stessa, da cui il neologismo introvabile: incompa[to]bile.
- Una domanda che pongo da anni ai miei amici poeti. Che senso (e utilità) hanno le letture di poesia in pubblico, i festival, dibattiti, tavole rotonde, inchieste, etc?
La risposta a questa seconda domanda è strettamente connessa alla prima. Anche il lettore deve essere infungibile. Il lettore è il poeta di secondo grado e forse dovrebbe essere considerato il poeta di primo grado, essendo il destinatario della poesia, lo scopo della poesia, e quindi ogni operazione culturale dovrebbe essere orientata al massimo rispetto del destinatario. Allo stesso modo in cui il destinatario non deve lasciarsi manipolare dalle strumentalizzazioni delle iniziative.
Ogni lettura, ogni convegno, ogni festival, etc, deve essere diverso da quelli che si tengono oggi. Frettolosi, superficiali, brevi, convulsi. Queste letture sono solo citazioni, riassunti, abbreviazioni e un lavoro ri-creativo di poesia che non dovrebbe essere meno intenso e complesso dello stesso lavoro creativo dell'autore. Le letture che si fanno oggi sono spesso un male minore, servono ad alcuni interessi e fra questi possono essere quelli del singolo poeta per farsi conoscere, ma non servono mai alla poesia. Anzi, nella maggioranza dei casi, servono a dare un'immagine sbagliata alla poesia.
Chi partecipa a queste letture ritiene di essersi avvicinato alla poesia, quando ha ascoltato pochissimi versi o composizioni di qualche autore per cinque minuti (Castelporziano, Piazza di Siena) o un quarto d'ora/mezz'ora nei casi migliori, quando invece è venuto a conoscere soltanto qualche citazione di poesie lette, in genere male, sia dall'autore non abituato alle letture, sia dall'autore col birignao, senza poter distinguere e ricomporre le due facce del segno: il significante ed il significato, cioé l'aspetto sonoro e il referente reale e neppure per poter comprendere il seno della composizione ecc. ecc. e dovremmo forse continuare a lungo...
- Quali sono secondo te le linee di ricerca e sperimentazione poetica più vivaci ed interessanti di quest'ultimo periodo?
La critica più impegnata e responsabile sta cercando di individuare le spinte e i movimenti che si proiettano nel futuro della poesia. In questo senso l'ultimo tentativo compiuto, al di là delle antologie, più o meno settorie, è quello di Renato Barilli: Viaggio al termine della parola*, pubblicato da Feltrinelli. Questo critico individua nel lavoro di alcuni poeti italiani, e tra questi poeti il mio personale lavoro, alcuni elementi che sono stati chiamati anche postmodernisti, che mi sembrano capaci di superare la crisi estrema del senso e del linguaggio della nostra epoca. Tutto è stato già detto e scritto.
Tutte le forme del discorso, tutte le metafore, gli stili sono arrivati alla compiutezza storica e la parola è arrivata al suo estremo limite, il silenzio. Come alternativa abbiamo soltanto l'uso consapevole del già detto e scritto o l'innovazione intraverbale, fondata cioé sull'attacco al sacro nucleo della parola. Questa direzione di lavoro è soltanto una delle possibili vie del futuro della poesia. Personalmente io ritengo che nel passaggio dalla galassia di Gutemberg a quella elettronica si spalanchino per la poesia le strade della tecnologia più avanzata e delle combinazioni artistiche, delle più diverse sensibilità mediante l'uso multiplo delle protesi sensoriali. In altre parole, credo nelle possibilità di realizzare, come io stesso ho già fatto in alcune sperimentazioni elettroniche per la Rai, quella che chiamano la poetronica, ovvero la poesia elettronica.
[...]Venerdì 24 aprile, nei locali del Centro culturale del Torrione di Forio... gli ospiti erano Marinka Dallos, Gianni Toti e il prof Peter Sarkozy, docente di letteratura ungherese all'Università di Roma, che ha introdotto la serata con una relazione storico-critica sulla poesia ungherese dalle origini a oggi.
Marinka Dallos e Gianni Toti hanno letto, tra l'altro, testi di Deszo Kosztolany, Attila Joszef, Endre Ady e Miklos Radnoti.
In occasione di questo ennesimo incontro di poesia ho rivolto alcune domande all'amico Gianni Toti.
- Inizio rifacendomi a quanto scrive Stefano Lanuzza in un saggio recente sulla tua poesia: “Gianni Toti, sorta di Jarry italiano che interpreta occasioni esistenziali e storiche, ecologo dell'ideologia avversa all'inquinamento di notizie e ai pestiferi epigoni che tanto ancora adugiano la nostra repubblica letteraria”. Molto brutalmente, ti chiedo: qual'è la funzione del poeta?
Questo tipo di domanda è simile alle domande con cui si organizzano convegni e congressi: qual'è la funzione o il modo dell'intellettuale, del musicista, del filosofo... Questa è una domanda da non porsi o magari essere formulata in modo diverso: non esiste una funzione del poeta. Perché il poeta non è un funzionario, non funge, non adempie, anzi È INUTILE. A questo punto può sembrarti provocatorio, ma se ti dico che il poeta non deve essere utile a nessuno, tutto diventa più chiaro. Non essere utile significa non essere usabile, significa non servire. Se dico che la poesia non serve può sembrare provocatorio, ma se ti dico che la poesia non deve servire a nessuno la cosa è diversa. Se non serve a nessuno allora serve, ma a se stessa. Per questo, dico sempre che la poesia non deve servire neppure la rivoluzione o qualsiasi altra nobile causa. Semmai penso che bisogna fare la rivoluzione perché la rivoluzione serve alla poesia.
Per chiarire meglio questa idea vorrei ricordarti il titolo del mio ultimo libro di poesia, Compoe[to]tibilmente infungibile, che riassume l'idea che la poesia è infungibile, cioé non ha funzioni, che non è compa[to]tibile con se stessa, da cui il neologismo introvabile: incompa[to]bile.
- Una domanda che pongo da anni ai miei amici poeti. Che senso (e utilità) hanno le letture di poesia in pubblico, i festival, dibattiti, tavole rotonde, inchieste, etc?
La risposta a questa seconda domanda è strettamente connessa alla prima. Anche il lettore deve essere infungibile. Il lettore è il poeta di secondo grado e forse dovrebbe essere considerato il poeta di primo grado, essendo il destinatario della poesia, lo scopo della poesia, e quindi ogni operazione culturale dovrebbe essere orientata al massimo rispetto del destinatario. Allo stesso modo in cui il destinatario non deve lasciarsi manipolare dalle strumentalizzazioni delle iniziative.
Ogni lettura, ogni convegno, ogni festival, etc, deve essere diverso da quelli che si tengono oggi. Frettolosi, superficiali, brevi, convulsi. Queste letture sono solo citazioni, riassunti, abbreviazioni e un lavoro ri-creativo di poesia che non dovrebbe essere meno intenso e complesso dello stesso lavoro creativo dell'autore. Le letture che si fanno oggi sono spesso un male minore, servono ad alcuni interessi e fra questi possono essere quelli del singolo poeta per farsi conoscere, ma non servono mai alla poesia. Anzi, nella maggioranza dei casi, servono a dare un'immagine sbagliata alla poesia.
Chi partecipa a queste letture ritiene di essersi avvicinato alla poesia, quando ha ascoltato pochissimi versi o composizioni di qualche autore per cinque minuti (Castelporziano, Piazza di Siena) o un quarto d'ora/mezz'ora nei casi migliori, quando invece è venuto a conoscere soltanto qualche citazione di poesie lette, in genere male, sia dall'autore non abituato alle letture, sia dall'autore col birignao, senza poter distinguere e ricomporre le due facce del segno: il significante ed il significato, cioé l'aspetto sonoro e il referente reale e neppure per poter comprendere il seno della composizione ecc. ecc. e dovremmo forse continuare a lungo...
- Quali sono secondo te le linee di ricerca e sperimentazione poetica più vivaci ed interessanti di quest'ultimo periodo?
La critica più impegnata e responsabile sta cercando di individuare le spinte e i movimenti che si proiettano nel futuro della poesia. In questo senso l'ultimo tentativo compiuto, al di là delle antologie, più o meno settorie, è quello di Renato Barilli: Viaggio al termine della parola*, pubblicato da Feltrinelli. Questo critico individua nel lavoro di alcuni poeti italiani, e tra questi poeti il mio personale lavoro, alcuni elementi che sono stati chiamati anche postmodernisti, che mi sembrano capaci di superare la crisi estrema del senso e del linguaggio della nostra epoca. Tutto è stato già detto e scritto.
Tutte le forme del discorso, tutte le metafore, gli stili sono arrivati alla compiutezza storica e la parola è arrivata al suo estremo limite, il silenzio. Come alternativa abbiamo soltanto l'uso consapevole del già detto e scritto o l'innovazione intraverbale, fondata cioé sull'attacco al sacro nucleo della parola. Questa direzione di lavoro è soltanto una delle possibili vie del futuro della poesia. Personalmente io ritengo che nel passaggio dalla galassia di Gutemberg a quella elettronica si spalanchino per la poesia le strade della tecnologia più avanzata e delle combinazioni artistiche, delle più diverse sensibilità mediante l'uso multiplo delle protesi sensoriali. In altre parole, credo nelle possibilità di realizzare, come io stesso ho già fatto in alcune sperimentazioni elettroniche per la Rai, quella che chiamano la poetronica, ovvero la poesia elettronica.
El Efecto Toti
En 1995 Gianni Toti presentó en Lima sus principales trabajos de videocreación. Antes de 1995 el videoarte tenía aún escasa visibilidad en el panorama local principalmente por la carencia de una "comunidad" que pudiera hacer más valedera la actividad artística en este nuevo medio.
Existían otras razones vinculadas a la falta de conocimiento local en relación al videoarte y por ello el poco interés de los museos y espacios culturales en el Perú por incorporar el vídeo de la misma forma en que ya lo hacían otros países de América Latina. Toti logró mostrar una porción de este panorama internacional. Sin embargo, el trabajo de Toti se caracterizaba por ser absolutamente crítico y complejo. Por eso, podríamos decir que la presentación de Toti en Lima no sólo fue una acción emblemática, sino radical para el panorama local. El siguiente paso se dio gracias al vínculo que Toti generó entre ATA 3 y organizaciones internacionales, principalmente el CICV (Centro Internacional de Creación de Video, Montbelliard-Belfort). Estos vínculos permitieron llevar a cabo, en 1998 la primera edición del Festival Internacional de Vídeo/Arte/Electrónica (que como gesto curioso se nombró segundo festival, apelando a uno realizado en 1977 por Alfonso Castrillón en la Galería del Banco Continental en Lima). El Festival generó una escena local y al mismo tiempo un activo intercambio con artistas y curadores internacionales.
Es innegable el apoyo de Gianni Toti en esta primera etapa y su contribución como mediador del vínculo entre el Perú y América Latina (o como él solía llamar, LatinAmerIndia) y con países Europeos donde este campo era apoyado por instituciones orientadas específicamente a la producción en nuevos medios que tuvieron un auge importante en la década del noventa.
Existían otras razones vinculadas a la falta de conocimiento local en relación al videoarte y por ello el poco interés de los museos y espacios culturales en el Perú por incorporar el vídeo de la misma forma en que ya lo hacían otros países de América Latina. Toti logró mostrar una porción de este panorama internacional. Sin embargo, el trabajo de Toti se caracterizaba por ser absolutamente crítico y complejo. Por eso, podríamos decir que la presentación de Toti en Lima no sólo fue una acción emblemática, sino radical para el panorama local. El siguiente paso se dio gracias al vínculo que Toti generó entre ATA 3 y organizaciones internacionales, principalmente el CICV (Centro Internacional de Creación de Video, Montbelliard-Belfort). Estos vínculos permitieron llevar a cabo, en 1998 la primera edición del Festival Internacional de Vídeo/Arte/Electrónica (que como gesto curioso se nombró segundo festival, apelando a uno realizado en 1977 por Alfonso Castrillón en la Galería del Banco Continental en Lima). El Festival generó una escena local y al mismo tiempo un activo intercambio con artistas y curadores internacionales.
Es innegable el apoyo de Gianni Toti en esta primera etapa y su contribución como mediador del vínculo entre el Perú y América Latina (o como él solía llamar, LatinAmerIndia) y con países Europeos donde este campo era apoyado por instituciones orientadas específicamente a la producción en nuevos medios que tuvieron un auge importante en la década del noventa.
Julio Cortazar:
Escribo desde los quince años, pero sólo a los treinta me animé a publicar un libro de poemas, firmado con seudónimo. He escrito siempre poemas. Adolescente, creí, como tantos, que mi sensación de extrañamiento anunciaba al poeta, y escribí, los poemas que se escribían entonces y que siempre son más fáciles de escribir que la prosa, a esa altura de la vida. Pero no había para más. Me sorprendí por eso cuando, un día en La Habana, Gianni Toti me dijo que de todo lo que había escrito lo que más le gustaba eran mis poemas. Cuando escribí Los reyes ya era dueño de una técnica, que era hija del rigor. Siguieron los cuentos de Betiario, sobre los que ya no tuve ninguna duda. Pero el noviciado había sido largo y duro. Había que tenerse mucha fe, y a la vez había que apoyarse en una permanente desconfianza en sí mismo. En el terreno práctico, esto debía traducirse en no publicar prematuramente, pecado cotidiano en nuestros países.
Escribo desde los quince años, pero sólo a los treinta me animé a publicar un libro de poemas, firmado con seudónimo. He escrito siempre poemas. Adolescente, creí, como tantos, que mi sensación de extrañamiento anunciaba al poeta, y escribí, los poemas que se escribían entonces y que siempre son más fáciles de escribir que la prosa, a esa altura de la vida. Pero no había para más. Me sorprendí por eso cuando, un día en La Habana, Gianni Toti me dijo que de todo lo que había escrito lo que más le gustaba eran mis poemas. Cuando escribí Los reyes ya era dueño de una técnica, que era hija del rigor. Siguieron los cuentos de Betiario, sobre los que ya no tuve ninguna duda. Pero el noviciado había sido largo y duro. Había que tenerse mucha fe, y a la vez había que apoyarse en una permanente desconfianza en sí mismo. En el terreno práctico, esto debía traducirse en no publicar prematuramente, pecado cotidiano en nuestros países.
Joaquín Jordà. La mirada lliure (Laia Manresa)
Lenin Vivo (1970) es un documental elaborado
con todos los documentos sonoros y visuales exis-
tentes que registraban la figura de Vladimir Lenin.
El mediometraje, de treinta y un minutos, fue un
encargo del Partito Comunista Italiano con oca-
sión del centenario del nacimiento del líder políti-
co, y la producción estuvo a cargo de Unitele film,
la productora del partido. Jordà codirigió la pelí-
cula con Gianni Toti, un poeta y crítico de cine
amigo suyo.
El documental, cuya versión original es italiana,
comienza con un discurso político de Lenin con la
pantalla en negro. Acto seguido, la voz en off que
nos guiará a lo largo de todo el metraje nos indica
que se trata de un discurso de Lenin en la plaza
Roja de Moscú, el primero de los tres documentos
fonográficos que se conservan de su voz. A conti-
nuación, comienza un breve repaso biográfico del
político, primero con fotos comentadas por la voz
en off, después, con un montaje de material de
archivo sin sonido para ilustrar la época en que vi-
vió, la Rusia de 1870.
Terminada la introducción, en el minuto cuatro
aproximadamente, la pantalla se vuelve a quedar en
negro y la voz en off presenta lo que constituirá el
cuerpo principal de la película con estas palabras:
''Lenin detestaba el culto como jefe revolucionario.
Ofrecemos a su modestia el testimonio visual de
su vida, y por eso, en el centenario de su nacimien-
to, presentamos sin ningún tipo de manipulación
veintidós fragmentos cinematográficos de Lenin
Wvo.'' Los fragmentos prometidos se ofrecen orde-
nados cronológicamente. Cada uno de ellos está
precedido por un cartel que Índica su fecha. Sobre
este cartel, la voz en off aporta un breve resumen de
las imágenes que se presentan a continuación tal
como fueron filmadas, sin ningún trucaje.
Para hacer el documental, los realizadores pidie-
ron a Moscú todo el material que tuviesen sobre
Lenin. Después de recibirlo y visionario detenida-
mente, se percataron de que el material había sido
manipulado. Si tenían un plano de Lenin movien-
do el brazo mientras hablaba desde una tribuna,
montaban este gesto una vez y otra vez. Utilizaban
un encuadre más corto del mismo plano o hacían
desaparecer la imagen de Trotsky que salía en el
plano general cuando éste pasaba a uno más corto.
Jordà y Toti se propusieron restaurar el material y
dejarlo tal como ellos pensaban que originalmente
fue rodado: ''Mi tarea consistió en la restauración
de la realidad filmada, en la devolución del encua-
dre que suponía original, en la restitución de la
verdad fílmica e histórica'' (Jordà, 1992: 59).
El primer fragmento visual consiste en el primer
Primero de Mayo de la Revolución Soviética (i de
mayo de 1918) y el último data del 30 de octubre
de 1922. El conjunto de todos los documentos
abarca un período de cuatro años y cinco meses de
la vida de Lenin. De los veintidós documentos,
veinte son visuales, uno es sonoro y otro es visual y
sonoro a la vez.
Aparte de algunos Primeros de Mayo y aniver-
sarios de la Revolución, la película ofrece imágenes
de Lenin en los jardines del Kremlin, en varias
inauguraciones de monumentos, funerales de com-
pañeros políticos, discursos y congresos de la Inter-
nacional Comunista.
Aproximadamente en el minuto veinte de la pe-
lícula y con fecha de 1920, el documental incluye
la única secuencia rodada en el ámbito familiar de
Lenin. Las primeras imágenes corresponden al co-
medor y a su habitación, compuesta por una cama
individual, una mesilla de noche y un escritorio. A
continuación, vemos a Lenin sentado al lado de su
mujer. Mientras habla, acaricia con afecto a un
gato que reposa en su falda.
El año 1922 está ilustrado con tres fragmentos.
El primero corresponde al día 20 de mayo. La voz
nos explica que Lenin está enfermo, y las imágenes
nos muestran un balneario donde el líder se ha
retirado para recuperarse. El 2 de octubre regresa a
Moscú. El médico reduce el horario de trabajo del
político de 11 de la mañana a 2 del mediodía y de
6 a 8 de la tarde, un horario que Lenin encuentra
difícil de respetar. Las últimas imágenes de Lenin
vivo, en el minuto veintisiete del mediometraje,
corresponden a Lenin en su estudio el día 30 de
octubre. La voz en off nos explica que el médico le
ha prohibido trabajar.
Aproximadamente en el minuto veintiocho, se
tiñe de negro la pantalla sobre la última imagen
de Lenin y en envolvemos a oír, como al inicio del
filme, la voz del político pronunciando un discur-
so. Se trata del tercer fragmento fonográfico que
incorpora la película. Todavía con la pantalla en
negro, la misma voz en off que nos ha acompañado
hasta ahora nos presenta lo que constituirá la ter-
cera y liltima parte del documental: ''Ùnico frag-
mento poético di Lenin vivo ('El único fragmento
poético de Lenin vivo)'' Se trata de un poema es-
crito por Lenin en el año 1907 que, en la película,
se lee en su traducción italiana: ''Gli anni degli
uragani'' ('Los años de la tempestad'). Con la lec-
tura del poema de fondo, se proyecta un montaje
de imágenes sobre la revolución de los años sesen-
ta. Esta última parte del documental supuso para
Jordà la rotura definitiva de relaciones con el Parti-
to Comunista:
''Allí tuve un serio encontronazo con la censura
del PCI. A la frase 'De Oriente surgirán soles', le
acompañaba una panorámica vertical de abajo
arriba, sobre Mao-Tse-Tung. El responsable ideo-
lógico de turno, una elevadísima jerarquía del Par-
tido, se empeñó en convencerme de que la quitara,
porque dicho desplazamiento hacia arriba per-
judicaba la política internacional del pci. Yo me
empeñaba en mantenerla, o en que la quitaran ellos,
que para eso eran los productores. La solución pac-
tada fue convertir en plano fijo la panorámica.
Godard llevaba razón'' (Jordà, 1992: 59).
Finalmente, la copia actual no incluye la imagen
de Mao, ni con panorámica ni sin ella.
con todos los documentos sonoros y visuales exis-
tentes que registraban la figura de Vladimir Lenin.
El mediometraje, de treinta y un minutos, fue un
encargo del Partito Comunista Italiano con oca-
sión del centenario del nacimiento del líder políti-
co, y la producción estuvo a cargo de Unitele film,
la productora del partido. Jordà codirigió la pelí-
cula con Gianni Toti, un poeta y crítico de cine
amigo suyo.
El documental, cuya versión original es italiana,
comienza con un discurso político de Lenin con la
pantalla en negro. Acto seguido, la voz en off que
nos guiará a lo largo de todo el metraje nos indica
que se trata de un discurso de Lenin en la plaza
Roja de Moscú, el primero de los tres documentos
fonográficos que se conservan de su voz. A conti-
nuación, comienza un breve repaso biográfico del
político, primero con fotos comentadas por la voz
en off, después, con un montaje de material de
archivo sin sonido para ilustrar la época en que vi-
vió, la Rusia de 1870.
Terminada la introducción, en el minuto cuatro
aproximadamente, la pantalla se vuelve a quedar en
negro y la voz en off presenta lo que constituirá el
cuerpo principal de la película con estas palabras:
''Lenin detestaba el culto como jefe revolucionario.
Ofrecemos a su modestia el testimonio visual de
su vida, y por eso, en el centenario de su nacimien-
to, presentamos sin ningún tipo de manipulación
veintidós fragmentos cinematográficos de Lenin
Wvo.'' Los fragmentos prometidos se ofrecen orde-
nados cronológicamente. Cada uno de ellos está
precedido por un cartel que Índica su fecha. Sobre
este cartel, la voz en off aporta un breve resumen de
las imágenes que se presentan a continuación tal
como fueron filmadas, sin ningún trucaje.
Para hacer el documental, los realizadores pidie-
ron a Moscú todo el material que tuviesen sobre
Lenin. Después de recibirlo y visionario detenida-
mente, se percataron de que el material había sido
manipulado. Si tenían un plano de Lenin movien-
do el brazo mientras hablaba desde una tribuna,
montaban este gesto una vez y otra vez. Utilizaban
un encuadre más corto del mismo plano o hacían
desaparecer la imagen de Trotsky que salía en el
plano general cuando éste pasaba a uno más corto.
Jordà y Toti se propusieron restaurar el material y
dejarlo tal como ellos pensaban que originalmente
fue rodado: ''Mi tarea consistió en la restauración
de la realidad filmada, en la devolución del encua-
dre que suponía original, en la restitución de la
verdad fílmica e histórica'' (Jordà, 1992: 59).
El primer fragmento visual consiste en el primer
Primero de Mayo de la Revolución Soviética (i de
mayo de 1918) y el último data del 30 de octubre
de 1922. El conjunto de todos los documentos
abarca un período de cuatro años y cinco meses de
la vida de Lenin. De los veintidós documentos,
veinte son visuales, uno es sonoro y otro es visual y
sonoro a la vez.
Aparte de algunos Primeros de Mayo y aniver-
sarios de la Revolución, la película ofrece imágenes
de Lenin en los jardines del Kremlin, en varias
inauguraciones de monumentos, funerales de com-
pañeros políticos, discursos y congresos de la Inter-
nacional Comunista.
Aproximadamente en el minuto veinte de la pe-
lícula y con fecha de 1920, el documental incluye
la única secuencia rodada en el ámbito familiar de
Lenin. Las primeras imágenes corresponden al co-
medor y a su habitación, compuesta por una cama
individual, una mesilla de noche y un escritorio. A
continuación, vemos a Lenin sentado al lado de su
mujer. Mientras habla, acaricia con afecto a un
gato que reposa en su falda.
El año 1922 está ilustrado con tres fragmentos.
El primero corresponde al día 20 de mayo. La voz
nos explica que Lenin está enfermo, y las imágenes
nos muestran un balneario donde el líder se ha
retirado para recuperarse. El 2 de octubre regresa a
Moscú. El médico reduce el horario de trabajo del
político de 11 de la mañana a 2 del mediodía y de
6 a 8 de la tarde, un horario que Lenin encuentra
difícil de respetar. Las últimas imágenes de Lenin
vivo, en el minuto veintisiete del mediometraje,
corresponden a Lenin en su estudio el día 30 de
octubre. La voz en off nos explica que el médico le
ha prohibido trabajar.
Aproximadamente en el minuto veintiocho, se
tiñe de negro la pantalla sobre la última imagen
de Lenin y en envolvemos a oír, como al inicio del
filme, la voz del político pronunciando un discur-
so. Se trata del tercer fragmento fonográfico que
incorpora la película. Todavía con la pantalla en
negro, la misma voz en off que nos ha acompañado
hasta ahora nos presenta lo que constituirá la ter-
cera y liltima parte del documental: ''Ùnico frag-
mento poético di Lenin vivo ('El único fragmento
poético de Lenin vivo)'' Se trata de un poema es-
crito por Lenin en el año 1907 que, en la película,
se lee en su traducción italiana: ''Gli anni degli
uragani'' ('Los años de la tempestad'). Con la lec-
tura del poema de fondo, se proyecta un montaje
de imágenes sobre la revolución de los años sesen-
ta. Esta última parte del documental supuso para
Jordà la rotura definitiva de relaciones con el Parti-
to Comunista:
''Allí tuve un serio encontronazo con la censura
del PCI. A la frase 'De Oriente surgirán soles', le
acompañaba una panorámica vertical de abajo
arriba, sobre Mao-Tse-Tung. El responsable ideo-
lógico de turno, una elevadísima jerarquía del Par-
tido, se empeñó en convencerme de que la quitara,
porque dicho desplazamiento hacia arriba per-
judicaba la política internacional del pci. Yo me
empeñaba en mantenerla, o en que la quitaran ellos,
que para eso eran los productores. La solución pac-
tada fue convertir en plano fijo la panorámica.
Godard llevaba razón'' (Jordà, 1992: 59).
Finalmente, la copia actual no incluye la imagen
de Mao, ni con panorámica ni sin ella.
Gramsciategui, ou les poesimistes
"GRAMSCiátegui! Y EL HOMBRE HACE MUNDOS…"
¿Es un verso? ¿Una poesía? ¿Un grito? Gramscientífico suena, el nombre compuesto de Antonio y de José. Gramsci y Mariátegui, una sola palabra. Como si fuese Garibaldategui o Bolivariátegui, une los símbolos del pueblo de Gramsciátegui: la síntesis lingüística, la contracción verbal, la asociación de los lenguajes. ¿Cómo se habla el coraje? ¿Cómo le habla el miedo? Recitándolo, explicaba Wittgenstein…No con modismos sino con gestos, la teatralidad del pensamiento que se re-evoluciona a cada neurona, cada sinápsis.
Así la VideoPoemOpera de Juan Totito, de Gianni Toti, plasma la palabra en movimiento: la imágenes cinematográficas, las imágenes poetrónicas, las imágenes esculptrónicas, las imágenes danzatrónicas, las imágenes verbotrónicas, las imágenes arquitectrónicas, las imágenes cromatrónicas, todas en movimiento finalmente. No como cuando existían solamente las imágenes photográficas, o las cinematográficas en movimientos casi estáticos…Gianni Toti nos ofrece con "Gramsciátegui" las Sonatas en Rojo Mayor (empieza en el movimiento futuráneo).
Junto con las imágenes del Monumento a la Tercera Internacional de Tatlin y de Chlebnikov, semejantes a las imágenes del DNA.(¿vista bien la analogía poética y ri-cerebro-lucionarias?)
En la misma fantasmagoria de la Serpiente Emplumada, de Quetzalcoatl, del Sexto Sol, y del próximo Pachacuti, la "postfecia" de la contra-conquista, la refuturación de los pueblos y la vengaza histórica de los holocaustos.
A nuestras palabras, pocas, pausadas, gritadas (El GRITO de Gramscaitegui, El Grito, no el canto. No cantaremos más, gritaremos. Desde el Castillo de Montbelliard a los Castillitos de LAtinAmerIndia. Y los otros castillos de nuestra poesía.
Gramsci ha muerto. Mariátegui ha muerto. Tupac Amaru ha muerto. Nosotros gritamos. El desespero es fuerte. ¡Los libertadores que se caigan en la leche!
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