viernes, 26 de febrero de 2010






Spazi Saturati / Despachos saturados (Casa Totiana & Torreon De la serna)

Subtus


Vorrei amarla, Suada, mi sembra che potrei, se soltanto mi sorridesse, ma l’ho troppo aspettato, questo sorriso, per non essermi accorto che proprio non sorride o, anzi, che sorride a rate, periódicamente, un po’ dal lato sinistro delle labbra e un po’ a destra, oppure con il labbro superiore prima, e quello inferiore dopo, e soltanto con questa o quella parte delle labbra, tutto il resto del viso e del corpo non sorride neppure in parte; non sa sottoridere, insomma. O non ne ha nessun motivo, povera Suada.

Gliel’ho detto, stupidamente, e da allora non sorride affatto, assolutamente, o tutta quanta, dalla radice dei capelli alle piegoline degli occhi, sinistriere e destriere, con tutti i muscoli facciali, e i denti che le sussultano allora attorno alla sottolingua. Eccessivamente, sorride allora, e non convince neppure se stessa.

Dimentica, Suada, dimentica ciò che ti ho detto io e, soprattutto, ciò che ti hanno detto tutti; non ci pensare più, a sorridere, e se ti viene da ridere, da surridere, superridere, superridi pure. Non è obbligatorio sottoridere, io non te l’ho ordinato, io non voglio che tu sottoviva. Perché sottovivi, tu?

sábado, 13 de febrero de 2010

Per una critica cinegrafica - Gianni Toti

Estratto da AA.VV., PER UNA NUOVA CRITICA. I CONVEGNI PESARESI
1965-1966, Marsilio editori, Venezia 1989, pp. 51-53, 59-60



Non esiste purtroppo, già raccolto e ordinato, un corpus di
materiali critici, una collezione finita e omogenea di testi
scelti in base a un principio limitativo di pertinenza, rassomiglianza
e differenza quale «simulacro» di oggetti
osservati e studiati per offrire la possibilità di un discorso
dall’interno della critica cinematografica. Né ho potuto
costituirmelo io stesso con facilità, come dovrebbe essere
possibile, invece, mediante una pubblicazione periodica
(quanto ci manca, per esempio, «Lo spettatore cinematografico
», una rivista che si è chiusa, forse proprio perché
era così utile, avendo per scopo quello di raccogliere i testi
di critica più significativi, si badi, non i migliori seguendo
tutta la gamma delle ideologie e degli interessi). Ma forse
è meglio che questo «corpus» – che sarebbe necessario per
una ricerca sui «sistemi di significazione» della critica
attuale non sia stato raccolto perché in fondo una tavola
rotonda sulla critica cinematografica, piuttosto che ridursi
a una esercitazione di un metalinguaggio su un altro metalinguaggio
sarà bene che discuta su certi vettori convergenti
di azione per il «Cinema Nuovo» cui è intitolata questa
Prima Mostra Internazionale delle Opere Prime; «prime
» evidentemente, non soltanto in senso cronologico o
anagrafico. Perché – è inutile spenderci forse altri discorsi o accumulare altri dati e cifre (li conosciamo tutti all’ingrosso)
– la situazione del cinema (critica compresa, quindi)
è più che problematica, e siamo ancora fermi alla ripetizione
degli allarmi che non riescono ad allarmare come
dovrebbero – segno che la segnaletica d’allarme è mal
impostata, forse. La situazione del cinema è grave, e parlo
di tutto il cinema, non solo di quello italiano – nonostante
le contemporanee e malinconiche discussioni in Parlamento.
A settant’anni da quella serata storica al Salon Indien
du Grand Café al numero 14 del Boulevard de Capucines
quando per la somma di un franco uno strano nuovissimo
pubblico scoprì «l’immagine animata», mentre il cinema
italiano continua ad allarmarsi, e quindi a non allarmarsi
veramente, nel più vicino e similare mercato cinematografico,
in Francia, Monsieur Paul Reverdy, Ispettore delle
Finanze, a una precisa domanda del suo Ministro sulla
possibilità di sopravvivenza del cinema nazionale (dopo la
constatata defezione di tre quarti degli spettatori) ha risposto
che «con quarantasei milioni di abitanti aventi un tenore
di vita elevato, e di conseguenza des loisirs variée (cioè
una varia disponibilità di utilizzazione del tempo libero),
il mercato interno francese è, per l’industria cinematografica,
un mercato ristretto. In queste condizioni non ci si
può nascondere che «il mantenimento di una produzione
nazionale costituisce una forma di lusso». Nella misura in
cui questa produzione perde la sua redditività naturale, il
problema che si pone alla collettività è di sapere se essa
accetta o no, sia per la via fiscale (alleggerimenti) sia per la
via del bilancio (sovvenzioni dirette o indirette), di sostituire
i capitali privati mancanti. Questa scelta è finanziaria
e culturale, dunque politica...». E la frase «il mantenimento
di una produzione nazionale costituisce una forma di
lusso» era sottolineata nel testo del rapporto dall’autore stesso: il che dimostra come uno Stato capitalistico moderno
possa a sangue freddo prospettarsi la disparizione di
uno dei rami più importanti del suo sistema di produzione
culturale. Il cinema, evidentemente, non viene ancora
considerato dalle sfere ufficiali di questo nostro vicino Paese
(le suocere e le nuore intendano) neppure al livello dell’editoria
(che, almeno per quanto riguarda la scuola, ha
una sua giustificazione permanente e ineliminabile): se
non dà profitto, non si giustifica. Il cinema, d’altra parte, è
veramente in crisi e il fenomeno, – anche soltanto a stare
alle dichiarazioni dei fratelli Siritzky padroni di un circuito
importantissimo che viene aggiornato come alternativa
agli altri loisirs moderni (campagne di cortesia, gare di
comfort, combinazione di divertimenti, ecc.), e che quindi
reagisce – è irreversibile. Gli spettatori diminuiscono e
l’aumento degli incassi è illusorio perché fondato su comparazioni
tra elementi non omogenei (le entrate del passato
e quelle attuali comparate come se i sistemi di accertamento
e controllo ufficiale fossero gli stessi fra il 1938 e il
1956). Il cinema è ormai un affare mondiale, e solo l’accertamento
e la concentrazione oligopolistica sembra consentire
per ora margini di crescenza quantitativa (nuovi mercati,
Paesi sottosviluppati cinematograficamente ecc.).
Come il teatro si è avviato alla sua fase boulevardière, così
sta avvenendo per il cinema, aggredito concorrenzialmente
dagli altrimezzi di impiego del tempo libero, così che da
una parte abbiamo l’estremo del cinema da boulevard, e
dall’altro estremo il cinema intellettualistico, il cinema
parallelo, con – al centro – il cinema della volgarità per bassi
appetiti di massa e per il nuovo mercato giovanile. Il
cinema e il pubblico vanno in maschera, «giocano a
nascondarella», come ha detto Alain Resnais: «ci sono tipi
di pubblico e tipi di film che non si incontreranno mai, e
proprio quando il pubblico si dimostra non più un consumatore
generico, ma sceglie i suoi prodotti (anche questa è
una delle cause di crisi), perché non si è ancora trovato il
modo di fornire la gente degli elementi d’informazione
indispensabili, cioè quelli rispondenti alla realtà: la pubblicità
tende ormai al suo controfine: fa credere al pubblico
che va a vedere un prodotto diverso da quello che si
proietta. E la critica...». Puntini puntini. Riempiamo questi
puntini puntini, se possiamo. La critica non ha ancora scelto
nella stragrande maggioranza la soluzione che offre alla
crisi: cinema di massa cioè risoluto appoggio alla cultura di
massa «perché solo dal pubblico del cinema di massa si
potrà selezionare il pubblico sufficiente e necessario per
creare la base culturale del nuovo cinema» (come diceva
Gramsci per la letteratura, parlando del suo rapporto con
quella d’appendice); oppure cinema diversificati per pubblici
differenziati; oppure cinema di massa e cinéma d’élite (con
conseguente autocensura economica che si aggiungerebbe
a quella politica e a quella culturale, quella cioè del diseguale
sviluppo delle conoscenze linguistiche cinematografiche)
... Eppure è importante che i critici cinematografici
scelgano, che si rendano conto della crisi per esempio,
in tutte le sue implicazioni socio-ideologiche. Per esempio,
sempre in Francia, dove le cose vanno peggio che da noi e
la crisi ci precede di qualche passo, il Ministro degli affari
culturali e il Centro Nazionale della Cinematografia Francese
hanno fatto realizzare alle Società di Economia e di
Matematica Applicata una inchiesta in mezzo al pubblico
sulla situazione e le prospettive della frequenza al cinema e si è scoperto che aumentano i mezzi per uccidere il tempo, ma
diminuisce il tempo da ammazzare. In altre parole, l’insufficienza
del tempo «per vivere» insieme al fatto che il cinema
non esercita più il quasi monopolio delle distrazioni
popolari, non è più quella specie di abitudine fisio-psicologica
che era diventata, la droga di massa (non è stata mai
solamente questo, beninteso), sono altri elementi della crisi
del cinema, però non riguardano più soltanto il cinema,
ma la stessa vita culturale e psicologica della nazione. In
sostanza, il pubblico oggi si è fatto del cinema un’immagine
che non lo stimola più come prima, e il cinema conserva
un’immagine del pubblico che è superata dalle nuove
tendenze di consumo dell’esistenza quale prodotto totale,
mercificazione, reificazione ed estraniazione totalizzante.
La critica, nel mezzo, dovrebbe riuscire a migliorare le due
immagini o avvicinarle, metterle a fuoco; ma finora non ci
è riuscita, anzi...

(…) Ma il cinema oggi risponde ancora a una concezione
macroscopica e ingenuamente romanzesca del divenire
sociale. Per questo i suoi «generi» si riducono al solo genere
romanzesco ottocentesco, e non si è andati al di là di
quel passo – che pure la critica segnalò sporadicamente
fondamentale – consistente nella scoperta della microscopia
deimovimenti esterni, del primo piano come nucleo della
figurazione di un nuovo linguaggio da applicare ai
movimenti interiori, ai meccanismi della coscienza, all’interiorizzazione
dello spettacolo o alla trasformazione in
spettacolo della vita interiore dell’uomo. Non sappiamo
ancora quando sfuggiremo a questa specie di legge poetica
che sembra inclusa nella regola del successo commerciale,
che può essere decretato soltanto da decine di milioni
di persone ai più diversi livelli di cultura e di sensibilità
(il successo del cinema è paragonabile al successo di
un’opera che dev’essere fruita attraverso le epoche, da
diverse umanità, come per mezzo di viaggi nel tempo), ma
è certo che siamo ancora nella fase della medicina emotiva
visuale distribuita in dosi da cavallo a una umanità che
aveva bisogno di un rimedio d’urgenza contro l’eccessiva
strumentalizzazione della ragione, e ne prendeva in dosi
di un’ora e mezzo di inibizione e di ipnosi ininterrotte. In
un’epoca di pianificazioni generali, di tipificazione di
mentalità, l’antidoto culturale è stato così grossolanamente
poetico, ha seguito le regole della volgarizzazione e della
standardizzazione emotiva, delle nevrosi collettive. La
critica ha reagito al meccanismo e ai suoi automatismi
come ha potuto, ma il suo metalinguaggio è rimasto invischiato
nelle stesse remore del linguaggio, mentre doveva
cominciare dal rinnovamento dei suoi stessi strumenti di
analisi cinematografica, cominciare dai cinegrammi come
segni linguistici, dalla semiologia, dallo studio delle strutture
linguistiche del cinema. Noi stessi dovremmo cominciare,
o ricominciare di qui. La antropologia strutturale ci
ha dimostrato che tutto è sistema di segni e di significati
secondi. Anche questo Festival, anche questa «Prima
Mostra Internazionale del Nuovo Cinema» è un sistema di
segni. Il titolo per esempio che, nella sua denotazione
apparentemente semplice come quella di Mostra Internazionale
del Nuovo Cinema sottintende una connotazione
di tendenza culturale. Non si tratta di cinema nuovo in
senso temporale, e le denominazioni, i messaggi pubblicitari,
gli inviti, le iniziative collaterali, le tavole rotonde, i personaggi invitati, l’ospitalità stessa, i gesti e i modi, gli
oggetti, i film stessi alla fine sono tutti segni, riti, protocolli.
Questa Mostra, per esempio, significa una certa ambizione
e una certa fiducia. Crede nel «nuovo» anche soltanto
perché è «nuovo», perché è «primo» e pretende
rischiosamente a una «verifica» dei «fermenti originali e
della volontà di rinnovamento nei contenuti e nel linguaggio
». La Mostra comunica e significa, insomma.
Comunica un’iniziativa, ci informa di lavori compiuti e da
compiere. Significa che il cinema si fa «nuovo»? O che
deve farsi «nuovo»? Se qui si verificano i «fermenti del
rinnovamento linguistico» vuol dire, per esempio, che
questi fermenti sono già stati riscontrati? Oppure ne identificheremo
qui soltanto qualcuno e la verifica verrà
dopo? Ma se questa Mostra si farà ogni anno, il cinema
che qui vedremo sarà «nuovo» ogni anno nel senso polemico
e programmatico evidentemente implicito nella
ragione del suo titolo? È, questo, possibile?

Fra cinema e poetronica (e oltre): le scritture di Gianni Toti - Sandra Lischi

Nel suo ricordo di Gianni Toti sui «Cahiers du Cinéma»
(marzo 2007) Jean-Paul Fargier esordisce con la rievocazione
di una sequenza di SQUEEZANGEZAÙM (1988): la prua
virtuale della corazzata Potemkin che squarcia lo schermo
bianco, come a dirigersi verso gli spettatori. Alla RAI di
Torino, aiutato dai suoi “montautori” e dai suoi “chimeramen”,
Toti aveva sperimentato le strumentazioni per gli
effetti elettronici e realizzato in video l’idea di Ejzenstein,
che avrebbe voluto, alla fine del suo film, una lacerazione
reale dello schermo da parte dell’immagine della prua che
avanza. LA CUIRASSÉ POÈTEMKINE, così Toti aveva rinominato
il film in quel suo videopoema che è un omaggio alle
utopie artistiche e politiche del Novecento, al linguaggio
transmentale di Chlébnikov, alla poesia di Majakovskij.

Frammenti di film si susseguono, intrecciandosi alle
musiche: Toti li rielaborava proprio come faceva con le
parole, per creare significati (“sognificati”, diceva) nuovi,
nuove associazioni di memoria e di immaginazione.
«Faceva cose nuove con le vecchie – scrive ancora Fargier.
Con associazioni forsennate, innesti, sovrapposizioni
di strati, intreccio di frammenti». Del resto, «nei suoi
testi brulicano parole-valigia lanciate in italiano, in francese,
in spagnolo, in russo, in inglese, con la sua voce di
poliglotta post-joyciano ispirato dal trans-linguismo,
arrotolando le sillabe come un declamatore sulle scene,
staccandole l’una dall’altra per far meglio gustare l’origine
di ognuna, spesso prelevandole da lingue diverse. Il suo modello era lo “zaùm” di Chlébnikov: la marmitta futurista, il melting-pot di tutti i linguaggi fusi per creare un parlare inaudito, il solo degno di esprimere la novità
dei tempi rivoluzionari». Quella del cinema è una
traccia che percorre tutta la riflessione e la creazione artistica
di Toti. A partire dalla battaglia per il grande cinema
di poesia, nel dibattito culturale del dopoguerra. «Io
e alcuni altri – una minoranza, effettivamente – eravamo
contrari a tutta l’esaltazione, la retorica neorealista nel
cinema e negli altri campi... Noi, proprio con un rifiuto e
un’uscita di campo, facevamo altre cose... Il cinema celebrato
in tutto il mondo per noi era retrivo nei confronti
del grande cinema di poesia... per quel cinema verista,
naturalista, gli Ejzenstein non esistevano...», mi aveva
detto in una conversazione (Roma, 1995).

Amico di Zavattini – con cui aveva collaborato per i CINEGIORNALI
LIBERI, non cessava di polemizzare con un cinema
inteso come “macchina da prosa” (così diceva), incapace di
articolare, elaborare, trasformare poeticamente la realtà in
linguaggio “altro” o, peggio ancora, piegato a esigenze di
propaganda politica, tentato dall’infausto richiamo del
“messaggio”. È illuminante rileggere oggi i suoi contributi
per la rivista «Cinema & Film», come quello su Ejzenstein
e Vertov (1967) in cui si dialoga con le problematiche
della cine-verità e del cine-occhio. Vi si intravedono, tra le
righe, affermazioni simili a quelle che Toti farà poi, negli
anni Ottanta e Novanta, sul presunto super-occhio elettronico.
«Non basta essere “maestri della vista” – scriveva nel
1967 –, bisogna creare le cose da vedere e che non ci sono
nella verità visuale dell’occhio umano e dell’occhio cinematografico
se non interviene l’autore mitopoietico a farti
conoscere ciò che lui ha costruito per dirti la vita guardata
con gli strumenti più perfezionati, agili e intelligentemente
e persino artisticamente manovrati». A Dziga Vertov
aveva dedicato, nel 1994, PLANETOPOLIS: a lui, la “trottola
volteggiante”, citato in immagini con frammenti de L’UOMO
CON LA MACCHINA DA PRESA; il progetto stesso di questa
gigantesca “video-poem-opera” aveva preso le mosse da
un Simposio sul cineasta, a Mosca, nel 1992. E SQUEEZANGEZAÙM
è un’opera video intessuta di omaggi al cinema:
quello classico (John Ford), quello d’animazione, quello
delle avanguardie storiche. Atto d’amore nei confronti di
un secolo di rappresentazioni e utopie schemiche, quelle
che ci hanno reso tutti “spettratori”, spettatori di ombre, di
spettri, di sogni. Un cinema che si trasforma, proprio nel
senso dello “zaùm”, del linguaggio transmentale di Velimir
Chlébnikov. Torna indietro, si ripete, gioca con se stesso,
si avvita su altre immagini, percorre altre forme, ricrea
didascalie e titoli, come accadrà poi in tutta la produzione
“poetronica” di Toti. Ricordo, durante la post-produzione
di PLANETOPOLIS, il trattamento di immagini di OTTOBRE di
Ejzenstein, con la folla mandata all’indietro, le bandiere
colorate in rosso sul bianco e nero; le sequenze di Pelescian,
di Medvedkin, di Vertov, di Ruttmann ma anche di
documentari scientifici; di Lang, Pennebaker, Marker...

Del resto, forse la sua opera video più toccante, quella che
ha conquistato alle arti elettroniche vari autori e vari critici
(come si è detto recentemente al festival di Clermont-
Ferrand, durante un omaggio a Toti) è INCATENATA ALLA
PELLICOLA del 1982 (una delle parti della TRILOGIA MAJAKOVSKIANA
per la Sperimentazione RAI). Quel frammento di pellicola, di due minuti, salvato dalla distruzione e donato a Toti dall’amica Lilj Brik, compagna per tanti anni
di Majakovskij, veniva dal film di Nikandr Turkin del
1919: vi recitavano i due,mettendo in scena la storia di una
ballerina che esce dallo schermo per amore del giovane
“reale”. Grazie all’intuizione delle possibilità di metamorfosi
e dilatazione temporale e delle alterazioni spaziali e
cromatiche del video, grazie alle parole recitate, alle citazioni
poetiche, all’ingrandimento di dettagli e gesti, a ripetizioni,
incantamenti, malinconie storiche (“malincosmie”,
come diceva Toti), il frammento (ri)diventa opera compiuta,
interpreta nell’arco di un’ora le speranze e le delusioni
di un’intera generazione di appassionati rivoluzionari della
parola e dell’arte, porta alla luce e a nuova vita una
scheggia di memoria altrimenti destinata alla scomparsa.
In modo poetico, evocativo, talora enigmatico, queste
opere sono anche un percorso di riflessione politica,
offrono materia di dubbio e pensiero sull’ascesa e il declino
(o il provvisorio silenzio) del comunismo, che Toti
aveva rinominato “coSmunismo” per sottolinearne la
vocazione planetaria, a venire, al di là di questa o quella
frettolosa e malintesa applicazione.

Il cinema Gianni Toti non lo aveva solo amato, commentato,
studiato, utilizzato nei video. A un certo punto lo
aveva anche fatto, sia come attore (per Faccini, gli
Straub, Gutierrez Alea e altri), sia come soggettista e sceneggiatore
di molti testi che sono rimasti allo stadio di
progetto, sia con due film realizzati: E DI SHAÙL E DEI
SICARI SULLE VIE DA DAMASCO (1973) e ALICE NEL PAESE DELLE
CARTAVIGLIE (1980, operazione cui sono correlati anche
un libro e un 45 giri musicale).

È interessante rileggere oggi i dibattiti (soprattutto su
SHAÙL, montato da Roberto Perpignani e interpretato da
GeorgeWilson) su riviste di quel periodo, da «Cineforum»
alla «Rivista del Cinematografo» a «Cinema Nuovo» e a
«Cinemasessanta». Si tratta di un film che capovolge l’idea
di “cinema storico” e che si costruisce con salti temporali,
provocazioni (i titoli di testa a metà del film), effetti, come
a chiamare il video, più versatile e malleabile della pellicola,
più disposto per la sua natura vibratile e puntiforme
alle “piegature” del linguaggio. «Penso ai film (dice Toti in
uno di questi articoli) come a “libri di immagini sonore e
visive”, che possono quindi aver bisogno di prefazioni, di
post-fazioni, di interventi sulla tessitura, indicazioni utili
al lettore-spettatore perché si fabbrichi da solo le sue “chiavi
di lettura” o di “slettura”, o di “illettura”...».

Scrittore di tutte le scritture, Toti ci fa capire qui come nel
suo itinerario creativo non si tratti di “passare” da un mezzo
a un altro, da una scrittura a un’altra (magari più evoluta
tecnicamente). La pagina – letteralmente e metaforicamente
– è una sola, foglio bianco e chiarore dello schermo,
superficie di proiezione cinematografica e quadro del
monitor. Negli anni Ottanta Gianni Toti diventa unmaestro
della sperimentazione in elettronica, internazionalmente
conosciuto, premiato, celebrato (più all’estero che in Italia,
va detto) fra i pionieri più radicali e più colti del panorama
video. Torna nella “poetronica” la sovversione dei linguaggi,
torna il cinema (medium ormai “completamente nato”
secondo Toti) come modulo del discorso in video, ma
nascono anche figure mai viste prima, avventure di forme,
impaginazioni e creazioni – anche in digitale – di
straordinario impatto sensoriale, intellettuale ed emotivo.
Se leggiamo le analisi critiche del suo lavoro letterario e poetico (come quelle, acutissime, di Giuseppe Zagarrio) riconosciamo le “figure retoriche” totiane, le sue invenzioni, i suoi capovolgimenti di linguaggio, le sue decostruzioni,
anche nelle immagini video: così come il suo respiro
planetario e cosmico, la sua “ironia antroposociologica”, il
suo sguardo sul futuro possibile e “poesibile”. Come ha
ben dimostrato una giovanissima studiosa, Silvia Moretti
(quanti giovani intorno all’opera di Gianni Toti, quanta
attenzione e passione riscuote il suo lavoro negli studenti
che vi si accostano o che l’hanno conosciuto di persona), si
tratta di uno schermo-video-pagina da percorrere con la
scrittura, sfogliare, attraversare, «in una continuità di reciproco
nutrimento tra l’arte scrittoria e visiva». Del resto, i
suoi video-poemi sono affollati di lettere e parole danzanti
e vive, animate (futuristicamente), divenute immagini o
contenitori di immagini; il cinema stesso, prelevato per
“frasi”, diventa un elemento del discorso: commuove un
piccolo Gramsci infagottato, filmato a Mosca (in GRAMSCIATEGUI),
commuove la ballerina Lilj che ha nostalgia della
tela bianca dello schermo, i soldati a cavallo che tornano
indietro, le masse avanzanti che non avanzano più... Pagina,
cinema, video? Parola, scrittura, musica?

Forse la lezione più alta di Gianni Toti, inscindibile dal
rigore e dalla freschezza che assumeva in lui l’esame puntuale
delle varie arti che ha attraversato (e di cui è stato
anche un teorico, formulando concetti e coniando terminologie),
sta proprio in questa poetica e in questa pratica
artistica della compresenza e dell’assunzione “totale” dei
linguaggi. Che fa del resto tutt’uno con la feconda, appassionata
convivenza – nella sua arte e nella sua esperienza
di vita – di tante lingue vive e “morte”, di tanti capolavori
letterari di tutti i tempi, di tante e diverse suggestioni
musicali, conoscenze teatrali, filmiche, scientifiche, filosofiche.
Ma anche di tanti paesi attraversati, persone note e
ignote, incontrate e mai dimenticate, avventure straordinarie,
straordinarie battaglie: umane, poetiche, politiche,
intellettuali. Il partigiano Vania, il militante del “proletariato”,
volentieri cantava quei versi del musicista e poeta
argentino Atuahalpa Yupanqui, cantore degli Indios e dei
dannati della terra, che aveva inserito anche in PLANETOPOLIS:
“prima esser uomo, poi poeta”.

Anche in questa direzione andrà riletta e ripensata e
“riscritta” la sua opera. E ri-vissuta. In modi diversi e nuovi
ma sempre producendo e ragionando e scrivendo e filmando
e inventando e creando senza mai arrendersi al
facile, all’ovvio, al noto. E ancora scrivendo e creando e
ragionando e filmando e producendo e…

Gianni Toti di Bruno Torri (Omaggio a Gianni Toti - Mostra Internazionale del nuovo cinema 43. Pesaro)

Sono molte le ragioni che ci hanno spinto, noi della Mostra
Internazionale del Nuovo Cinema, a ricordare Gianni Toti,
a rendergli omaggio in questa edizione della manifestazione
che si svolge sei mesi dopo la sua scomparsa. Ne voglio
indicare almeno due. In primo luogo perché Gianni è stato
un intellettuale e un artista molto originale, che ha occupato
una posizione insieme anomala e rilevante nel panorama
culturale italiano, meritando più di un riconoscimento
anche a livello internazionale: anzi, per quanto riguarda le
sue ultime esperienze creative, sarebbe più esatto dire che
la sua pionieristica attività nel settore dell’arte elettronica è
stata apprezzata meglio all’estero che non in Italia.

Oltre a questa ragione, che già di per sé sarebbe assolutamente
sufficiente, voglio anche rammentare che Gianni è
stato, sin dagli inizi e a più riprese, assai vicino alla
Mostra di Pesaro. Infatti, durante la prima edizione, nel
lontano 1965, partecipa alla Tavola Rotonda intitolata:
“La critica e il nuovo cinema”; e anche nelle due successive
edizioni collabora ad analoghi convegni, ancora centrati,
tematicamente, sulla critica cinematografica e sulle
specificità del linguaggio filmico, tenendovi ogni volta una relazione e risultando così l’unico, assieme a Pier Paolo Pasolini, a essere sempre attivamente presente. In
tal modo contribuì alla realizzazione, e alla riuscita, di
un’iniziativa ripetuta appunto per tre anni consecutivi e
connotata sempre dalla stessa finalità, quella di ridurre lo
scarto allora ravvisabile tra l’avanzamento del “nuovo
cinema” – rispetto al quale la Mostra di Pesaro intendeva
porsi come momento di individuazione e riflessione, di
valutazione e di promozione – e l’arretratezza, teorica e
pratica, dei discorsi sul cinema e sui film.

Poi la sua collaborazione divenne ancor più stretta nell’edizione
1968 della Mostra, che quell’anno risultò segnata,
nel bene e nel male (ma più da quello che da questo), dalla
Contestazione. Gianni era uno dei cinque componenti
della Commissione di Selezione e durante le giornate
pesaresi il suo rapporto con il movimento studentesco,
dapprima piuttosto diffidente ma subito dopo molto partecipe,
fu per lui molto determinante: tanto che, come in
seguito ebbi modo di dirgli, un poco seriamente e un poco
scherzando, Pesaro, quell’anno, rappresentò per lui una
sorta di via di Damasco. Che comunque non lo allontanò
dal Partito Comunista cui si era iscritto sin da giovanissimo,
quando a Roma militava nella Resistenza, semmai
radicalizzò ancor più le sue particolari convinzioni marxiste:
particolari perché Gianni sapeva coniugare ortodossia
e dubbio; e non a caso citava spesso la frase del medesimo
Marx “Io non sono marxista”. Dopo di allora Gianni ritornò
altre volte a Pesaro come spettatore e, in un paio di
occasioni, negli anni Novanta, ancora come protagonista,
cioè come “poetronico” (il neologismo è suo), per presentare
alcuni suoi video e per intervenire in altri convegni
come teorico dei nuovi linguaggi audiovisivi.

Ma, ripeto, Gianni Toti, ben al di là dei suoi apporti e delle
sue condivisioni pesaresi, è stato una personalità di primo
piano in diversi campi culturali; una personalità dotata
di un ingegno multiforme e di straordinarie capacità
produttive. Oltre che lettore insaziabile e viaggiatore planetario,
è stato giornalista (memorabili i suoi articoli dal
Vietnam), romanziere, poeta, saggista, traduttore, critico
cinematografico, regista cinematografico, direttore di una
rivista («Carte segrete») unica nel suo genere, specialmente
per la riscoperta di testi letterari o saggistici italiani e
stranieri, esperto editoriale (creò e curò la collana «I
Taschinabili») e infine, ma non sono affatto sicuro di aver
ricordato tutto, videasta. Attività, questa, cui si dedicò
negli ultimi decenni della sua vita con grande entusiasmo,
riuscendo a immettervi, e a unificare, la vocazione per la
sperimentazione, l’impegno ideologico e un vastissimo
retroterra culturale continuamente alimentato e rielaborato;
e confermandosi, anche in questo ambito espressivo
così peculiare e diverso, anche lavorando con e sulle
immagini, un maestro di logos, nel duplice significato di
“parola” e “ragione” contenuto nel termine greco.

Di tutto ciò a Pesaro intendiamo offrire una testimonianza,
proiettando alcuni suoi video e discutendo la sua opera in
una Tavola Rotonda, alla quale partecipano i suoi più attenti
e penetranti interpreti. I quali, ne sono certo, finiranno
per parlare anche della persona, ovvero, delle sue qualità
umane, del suo amore per la vita, della coerenza con cui ha
sempre vissuto le proprie idee, del suo senso dell’amicizia,
insomma di tutto quello che, assieme alla sua stessa opera,
ci fa ricordare Gianni con ammirazione e riconoscenza.